Lenin e la “malattia infantile del comunismo”. Un “manuale di strategia e di tattica”

François Sabado*

da www.antoniomoscato.altervista.org

La crisi del capitalismo, conseguenza disastrosa delle politiche, sia di destra sia di sinistra, portate avanti fin dagli anni Ottanta, spinge un numero crescente di persone ad interessarsi di nuovo alle idee di Karl Marx, soprattutto alla sua critica dell’economia politica.

Dai dubbi sulla fondatezza del capitalismo alla critica del neoliberismo e poi alla volontà di rompere con il capitalismo, si pongono una ridda di interrogativi: Che fare? Come fare? Da dove cominciare e con chi? Come passare dalla denuncia e dal rigetto alla rottura con il capitalismo? Quale ruolo possono e devono svolgere, nelle associazioni, nei sindacati, nei partiti politici, i militanti e le militanti, gli uomini e le donne di sinistra che vogliono rompere con il capitalismo?

È a loro, a noi, che Lenin si rivolge. Popolare nell’accezione buona del termine, egli intende farsi leggere da quante più persone possibile. Scritto in un linguaggio semplice e chiaro, ogni idea viene illustrata da esempi. Semplice, ma non semplicista, Lenin compie in quest’occasione un vero e proprio tour de force. Il sottotitolo dell’opera [nella riedizione francese – NdT], “Saggio di discussione popolare sulla strategia e la tattica marxiste”, sta chiaramente ad indicare l’eredità assunta e rivendicata.

Va ancora di moda attualmente rigettare Lenin nel mucchio di tutto quel che si può ben definire la “controrivoluzione staliniana”. Ad esempio, l’equazione Lenin = Stalin = Gulag serve spesso a parecchia gente per screditare Lenin definitivamente. Noi non siamo fra costoro. Al contrario, oggi è davvero urgente l’esigenza di rivisitare, criticamente, l’opera e l’azione di Lenin (1870-1924) prima, durante e dopo la rivoluzione russa. È assolutamente impossibile porre un tratto di identità tra Lenin, pur con le sue debolezze, gli errori, gli sbagli, e Stalin (1879-1953), che liquida la rivoluzione russa, ne elimina i principali dirigenti a partire dal 1927, poi impone il regno di una dittatura personale basata sul terrore di massa.

Lenin, la rivoluzione d’Ottobre e i paesi europei

Lenin è innanzitutto, un uomo ossessionato, fin dalla gioventù, dall’idea di rovesciare l’ordine stabilito. Consapevole della necessità di combinare tattica e strategia per rovesciare l’ordine capitalistico, è il primo a mettere in atto tattiche ardite e diversificate.

Secondo Lenin, a partire dall’ottobre 1917, lo spartiacque in seno al movimento operaio mondiale è la solidarietà, il sostegno, l’identificazione con la rivoluzione russa. Si delimitano i campi: pro o contro la rivoluzione russa; occorre scegliere. Da un lato, la socialdemocrazia che si oppone alla rivoluzione bolscevica e tradisce la rivoluzione tedesca del 1918; dall’altro, il raggruppamento dei rivoluzionari di ogni tendenza: comunisti, consiliari, sindacalisti rivoluzionari, socialisti di sinistra, senza partito.

Il movimento operaio di allora, sotto il duplice effetto della guerra e della rivoluzione russa, conosce processi giganteschi di riorganizzazione: rotture, divisioni i frazioni, differenziazioni, riavvicinamenti, fusioni, che segnano la vita quotidiana di milioni di uomini e di donne. Esistenze, coscienze, impegni si sconvolgono. L’entusiasmo rivoluzionario sospinge centinaia di migliaia di militanti a lasciare le vecchie case riformiste per i nuovi partiti comunisti. Si tratta di processi di ricomposizione senza precedenti. Hanno la stessa portata dell’onda d’urto della rivoluzione russa. È capitale la delimitazione rispetto alla socialdemocrazia. È l’atto fondante di un nuovo movimento operaio con la creazione della III Internazionale.

Ben presto, tuttavia, le sfide politiche in ciascun paese richiedono risposte più complesse. Il sostegno alla rivoluzione russa deve essere accompagnato da tattiche politiche nuove, da avvenimenti e da compiti, da contenuti che danno corpo, qui ed ora, a una strategia di conquista del potere. Scritte nel ferro e nel fuoco dell’avanzata rivoluzionaria degli anni Venti, Lenin ci consegna le lezioni tratte dalla sua personale esperienza e da quella della principale corrente marxista della socialdemocrazia russa: i bolscevichi prima, durante e dopo la rivoluzione russa del 1917.

Lenin ieri e oggi

Lenin e i rivoluzionari russi si trovano di fronte allo sviluppo di sinistre comuniste o di “ultrasinistri”, nei centri europei del movimento operaio, in Germania, in Inghilterra, in Italia. Travolti dal loro entusiasmo, questi comunisti di sinistra, o “consiliari”, vogliono saltare le tappe. Rifiutano la partecipazione alle elezioni borghesi e decretano che le vecchie forme politiche dei partiti e dei sindacati sono superate da nuove unità dei lavoratori.

Per Lenin si tratta di estremisti. Hanno la sua simpatia perché sostengono la rivoluzione russa, ma le loro posizioni politiche portano dritti a un vicolo cieco se non alla catastrofe politica, isolando i rivoluzionari dalla massa dei lavoratori e dalle classi popolari. Questa lotta contro l’estremismo assumerà ancora maggior forza nel 1921, al III congresso dell’Internazionale comunista, contro l’avventurismo di alcuni settori del Partito comunista tedesco e il settarismo dei comunisti italiani guidati da Bordiga.

Questa dimensione congiunturale e polemica darà il titolo originale del libro: L’estremismo, malattia infantile del comunismo, anche se, in realtà, il testo va ben oltre. Esso è anche, e soprattutto, una lezione formidabile sulla necessità di una riflessione originale e non dogmatica sui problemi tattici e strategici di coloro che intendono rompere con il capitalismo. Vi vengono trattate una serie di questioni: i problemi del riformismo, i rapporti tra il parlamentarismo e la politica, il ruolo dei sindacati, la necessità dei compromessi, il ruolo del partito e la sua direzione, la natura della rivoluzione. Altri ne sono assenti, ad esempio il problema dei rapporti tra la democrazia e il socialismo.

Perché leggere, rileggere e discutere questo testo di Lenin. Non è forse obsoleto cento anni dopo? Non sono forse contrassegnati dalla forza propulsiva della rivoluzione russa dell’ottobre del 1917? Certi termini e certe formule sono storicamente connotati, superati, o a volte erronei, visti in prospettiva storica. I problemi posti da Lenin, tuttavia, sono e restano al centro delle tattiche e delle strategie che occorre oggi attualizzare e ridefinire per rompere con il capitalismo.

Che cos’è una rivoluzione?

La rivoluzione russa resta oggi un marcatore politico. Incarna la prima rivoluzione socialista su scala mondiale, nel senso che i bolscevichi sono, secondo Rosa Luxemburg, coloro che “hanno osato”, osato abbattere lo zarismo, osato rovesciare il potere delle classi dominanti, rompere con il capitalismo e conquistare il potere. Essa conserva questo significato.

Non è stata però una serata di gala, meno ancora un colpo di Stato. La rivoluzione russa, come ogni rivoluzione, è l’irrompere delle masse sulla scena sociale e politica, e anche il risultato di tutto un processo che si è dispiegato nel corso di anni preparatori alla rivoluzione russa. Lenin la rievoca in questi termini: “Non c’è (…) un solo paese che in questo quindicennio [1903-1917] abbia fatto, anche solo approssimativamente, quanto la Russia nel senso dell’esperienza rivoluzionaria, della rapidità e varietà di successione delle diverse forme del movimento, legale e illegale, pacifico e violento, clandestino e aperto, ristretto e di massa, parlamentare e terroristico. In nessun paese è stata concentrata in così breve spazio di tempo una tale ricchezza di forme, sfumature, metodi di lottadi tutte le classi della società contemporanea […]”.

Egli sottolinea come le crisi rivoluzionarie siano “crisi nazionali” che non dipendono soltanto dall’attività della classe operaia, ma anche da “una crisi di tutta la società e di tutte le classi”. Lo precisa inoltre spiegando che una situazione rivoluzionaria esplode quando “gli ‘strati inferiori’ non vogliono più e gli ‘strati superiori’ non possono più vivere come in passato”, e quelli intermedi pencolano verso quelli inferiori, senza trascurare l’importanza della coscienza e dei partiti rivoluzionari.

Lungi da qualsiasi dogmatismo, dice che la scintilla può esplodere dalla gerba di scintille che si sprigionano dal capitalismo, con gli incessanti sconvolgimenti che comporta. Lungi da ogni visione puramente economica, cita il caso Dreyfus, che in Francia ha portato il paese sull’orlo della guerra civile. L’evento rivoluzionario va preparato, non perché si contrappone alla riforma, ma perché la storia lo ha dimostrato. Se delle riforme conseguenti sostengono una ripartizione ugualitaria delle ricchezze e rimettono in discussione la proprietà capitalista, le classi dominanti non accettano la volontà della maggioranza. Scatenano la loro violenza contro gli oppressi, incluso infischiandosene della loro stessa legalità, come ad esempio in Cile nel 1973; bisogna dunque preparare il confronto e prepararsi allo scontro.

Al di là delle caratteristiche generali della rivoluzione russa, Lenin insiste sulle specificità di ogni particolare situazione politica, di ciascuna rivoluzione. Ritorna a più riprese sul fatto che “è stato facile [per la Russia] iniziare la rivoluzione socialista, mentre sarà per la Russia più difficile che per i paesi europei continuarla e condurla a termine”. Sottolinea a fondo la difficoltà maggiore della conquista del potere in Occidente: “Creare nei parlamenti d’Europa una frazione parlamentare autenticamente rivoluzionaria è infinitamente più difficile che in Russia”. Lenin coglie, a suo modo, le differenze tra l’Est e l’Ovest, anche se questo dibattito non ha ancora tutte le dimensioni che assumerà in seguito, in particolare con Gramsci.

Quest’ultimo pone l’accento sulle “fasi preparatorie della rivoluzione”, sulla necessità di “conquistare l’egemonia” – sociale, politica e culturale – da parte delle classi dominate, in cui esse dimostrino la superiorità della “gestione operaia o collettiva” e della loro “democrazia e autogestione socialista” sul predominio dell’economia capitalistica e su quello dello Stato borghese. Questo processo culmina nel momento di crisi rivoluzionarie o di fasi di dualismo di potere che si risolvono nello scontro, in cui di fronte alla violenza di “quelli in alto” quelli in basso devono distruggere la vecchia macchina dello Stato.

Trotskij riprende questa riflessione nel Programma di transizione del 1938: “Occorre aiutare le masse nei processi delle loro lotte quotidiane a trovare il ponte tra le loro attuali rivendicazioni e i programmi della rivoluzione socialista. Questo ponte deve consistere in un sistema di obiettivi transitori, che partono dalle condizioni attuali e dalla coscienza attuale di larghi strati della classe operaia e conducono invariabilmente a una sola conclusione: la conquista del potere da parte del proletariato”.

Le questioni poste da Lenin riemergono lungo tutto il secolo attraverso alcune esperienze rivoluzionarie europee, come pure in quelle dei paesi cosiddetti del “terzo mondo”. Nelle rivoluzioni tedesca e italiana degli anni Venti, con lo sciopero generale del giugno 1936 in Francia. La rivoluzione spagnola del luglio 1936, in occasione delle spinte rivoluzionarie del secondo dopoguerra e dalle rivoluzioni nei paesi coloniali e semicoloniali, infine attraverso alcune esperienze rivoluzionarie della fine degli anni Sessanta in Francia e nell’Europa del Sud. Alcune di queste esperienze sono state spietatamente represse dalla polizia e dall’esercito al servizio della borghesia. Altre sono state divorate dal cancro burocratico o nazionalista. Anche la controrivoluzione staliniana ha massacrato la bell’idea del comunismo.

In questo scontro storico finora il capitalismo ha dimostrato di essere ancora lui il più forte. Anche al momento delle sue crisi storiche, è riuscito a rialzarsi, trovare un’uscita dalla crisi e ripartire, spesso aiutato dalle burocrazie riformiste che scelgono di difendere i propri specifici interessi e quelli dei capitalisti, anziché quelli delle classi popolari. Perché allora, quasi un secolo dopo la rivoluzione russa, riprendere questi dibattiti?

Ci troviamo in una nuova fase storica. Oggi, certo, non vi è un’”attualità della rivoluzione” come negli anni Venti o in una situazione come quella del 1968 nel Sud Europa. Vi è comunque uno scarto enorme tra la profondità della crisi del sistema capitalista mondiale e la debolezza del movimento anticapitalista internazionale, anche se il sistema è lacerato dallo sviluppo di lotte o di movimenti sociali, ad esempio quello altermondialista.

In Cina, negli Stati Uniti e in Russia non si può, per motivi diversi, che registrare la grande debolezza dei movimenti rivoluzionari! Per farla breve, i contestatori, i rivoluzionari di oggi, in rapporti di forza sfavorevoli, sono rivoluzionari senza rivoluzioni. Tuttavia, se non viviamo una congiuntura rivoluzionaria, la crisi di civiltà che conosce il mondo capitalista, in tutte le sue dimensioni – economica, sociale, ecologica e politica – dimostra che l’epoca potrebbe ben essere quella della rottura con il capitalismo. Se l’acutezza dell’attuale crisi del capitalismo torna a porre la questione della rottura con il capitalismo, si tratta esplicitamente del modo in cui Marx imposta il problema nei Grundrisse: “A un determinato stadio del loro sviluppo, le forze materiali di produzione della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione dati o, cosa che ne è solo l’espressione giuridica, con i rapporti di proprietà entro i quali si erano mosse fino ad allora. Da forme di sviluppo delle forze produttive quali erano, questi rapporti diventano degli ostacoli. Si apre allora una fase di rivoluzione sociale”.

L’ostacolo del riformismo

Secondo Lenin, l’esplosione nazionale e il pencolare della socialdemocrazia europea verso la Santa alleanza con ciascuna delle borghesie nazionali, in occasione della guerra del 1914-1918, segna una svolta storica. “il passaggio della socialdemocrazia dalla parte della borghesia contro il proletariato”. Al tempo stesso, però, nonostante le perdite di centinaia di migliaia di militanti, i partiti socialdemocratici conservano una base di massa al’interno delle classi popolari. Come spiegare una simile situazione?

L’imperialismo contemporaneo ha creato per alcuni paesi progrediti una posizione di privilegio, di monopolio, e su questo terreno è comparso dappertutto, nella II Internazionale, il tipo dei capi traditori, opportunisti, social sciovinisti, che difendono gli interessi della loro corporazione, del loro strato di aristocrazia operaia. Si è prodotto un distacco dei partiti opportunistici dalle masse, cioè dai grandi strati di lavoratori, dalla loro maggioranza, dagli operai peggio retribuiti”. È in questo processo che i socialdemocratici diventano “gli agenti della borghesia nel movimento operaio”, o “i luogotenenti operai della classe capitalista”.

Lenin a ragione ricerca le cause degli sviluppi della socialdemocrazia nella sua composizione sociale, nelle sue basi di esistenza materiali. È nella difesa di alcuni particolari interessi la spiegazione della politica della socialdemocrazia. Ma mettere nel mirino l’aristocrazia operaia come base sociale del riformismo è solo una risposta parziale e congiunturale al problema posto. Alcuni strati superiori della classe operaia possono beneficiare delle briciole della dominazione capitalista e schierarsi nel campo delle classi dominanti. Tuttavia, operai specializzati di questa aristocrazia operaia dirigeranno anche scioperi e lotte rivoluzionarie, soprattutto in Germania, attraverso quelli che sono stati chiamati gli “uomini di fiducia”, in occasione delle insurrezioni di Berlino negli anni Venti.

Il concetto di burocrazia spiega e descrive il processo di integrazione di alcuni settori provenienti dal movimento operaio e da quello sociale nelle strutture dello Stato e dell’economia capitalistica e il suo pencolare dalla parte degli interessi fondamentali delle classi dominanti. La sinistra socialdemocratica tedesca, in particolare Rosa Luxemburg, analizzerà l’emergere della burocrazia nei sindacati e nel partito socialdemocratico. Lenin, da parte sua, descrive piuttosto precisamente, specie nel caso della situazione inglese e tedesca, come i dirigenti riformisti sostengano la politica della borghesia… “ma a modo loro”…cosa che li porta, da un certo punto di vista, ad opporsi ai partiti di destra, o la burocrazia sindacale a battersi contro il padronato …

Più tardi, Trotskij riprende questa analisi, con il concetto di duplice funzione della burocrazia. Per lui, la burocrazia tende a difendere gli interessi della borghesia, ma deve conservare una certa influenza nei movimenti di massa, condizione per preservare la propria esistenza, e quindi ha bisogno di guidare determinate mobilitazioni e certe lotte. A seconda della situazione, i margini di manovra delle burocrazie dei partiti e dei sindacati riformisti per gestire questa duplice funzione sono più o meno ampi: più importanti negli anni 1945-1970, più ristretti di fronte alla crisi del capitalismo, in cui le controriforme e i programmi di austerità aggravano le condizioni di vita di milioni di salariati. Questo porta a un inserimento crescente dei dirigenti della sinistra tradizionale ai vertici dello Stato e dell’economia capitalistica: ad esempio, Dominique Strauss-Kahn alla direzione del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e Pascal Lamy alla testa dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC).

Se però Lenin insiste sul carattere controrivoluzionario della socialdemocrazia in particolare negli anni Venti, non riduce la sua analisi del riformismo a quella degli apparati e dei vertici dei partiti socialdemocratici e dei sindacati. Il riformismo deriva anche dal predominio ideologico della borghesia sul movimento operaio e su quello sociale, che individualizza, frammenta, divide i lavoratori, e presenta il sistema economico-sociale capitalistico come “normale”, “naturale”. D’un tratto, non vi sarebbe posto che per parziali miglioramenti, per riforme e quindi solo “sindacalismo”, “trade-unionismo”, come direbbe Lenin.

Sul piano politico, non vi sarebbero altri orizzonti che il parlamento per effettuare cambiamenti politici. Il riformismo propone allora di passare al socialismo attraverso la conquista della maggioranza parlamentare: quale illusione!.

Le attuali istituzioni sono al servizio delle classi dominanti e restringono, limitano la democrazia reale.

Questo si aggrava per i limiti e gli insuccessi delle politiche sia di destra sia di sinistra tra il 1981 e il 2002, per sfociare nella crisi attuale della rappresentanza politica e l’ascesa dell’astensionismo.

Il sindacalismo

Proseguendo la sua analisi del riformismo, Lenin polemizza con gli estremisti che considerano superato il sindacalismo classico. “Assurdità altrettanto puerili e ridicole non possono non sembrare a noi anche le chiacchiere, assolutamente dotte e terribilmente rivoluzionarie dei sinistri tedeschi allorché dicono che i comunisti non possono e non devono lavorare nei sindacati reazionari, che è lecito rifiutarsi di svolgere questo lavoro, che bisogna uscire dai sindacati e organizzare assolutamente una ‘lega operaia’ del tutto nuova, pura, escogitata da comunisti molto simpatici (…)”. E soggiunge: “Non lavorare all’interno dei sindacati reazionari significa abbandonare le masse operaie arretrate o non abbastanza evolute all’influenza dei capi reazionari, degli agenti della borghesia, dell’aristocrazia operaia, ossia degli ‘operai imborghesiti’”.

Per Lenin, al di là delle strutture delle organizzazioni vige un principio: “Bisogna lavorare assolutamente là dove sono le masse”. Questa politica di massa porta concretamente a respingere ogni settarismo, ogni abbandono delle organizzazioni di massa.

Pur mirando alla riorganizzazione di massa del movimento operaio, respinge ogni concezione che punti a sostituire alle vecchie organizzazioni sindacali nuove leghe operaie che supererebbero le divisioni tra sindacati consigli e partiti… La sua visione è quella di una riorganizzazione complessiva, in cui i riformisti vengano emarginati grazie alla lotta politica dalla direzione di un movimento operaio che orienta verso posizioni rivoluzionarie.

Alcuni mesi dopo, tuttavia, sarà necessario mettere in evidenza qualche contraddizione in Lenin e nei dirigenti dell’Internazionale comunista di allora. Si possono concepire al contempo sindacati di massa e la subordinazione dei sindacati al partito rivoluzionario? Sul piano internazionale, la creazione di una “Internazionale sindacale rossa” nel 1921 è organicamente legata all’Internazionale comunista. Il rapporto di subordinazione del sindacato al partito trae origine dai dibattiti sui rapporti tra partito e sindacati in Germania nel 1905-1906. Ha portato in molti casi a separare i sindacati comunisti dai sindacati riformisti, in contraddizione con l’obiettivo dell’intervento dei rivoluzionari comunisti in sindacati di massa, anche se a direzione riformista o reazionaria.

Le differenze storiche tra il movimento operaio anglosassone e quello del Sud Europa continuano ad esserci ancora oggi, ma l’esperienza storica ha portato i marxisti a una visione più equilibrata. Non va stabilita una gerarchia tra i diversi livelli organizzativi del movimento operaio. La differenze tra sindacati e partito sono differenze di funzioni: ai sindacati, l’organizzazione di massa dei lavoratori di una fabbrica, di una categoria, di un settore, di un ramo industriale: al partito, le tattiche e le strategie per la conquista del potere politico.

Sindacalismo di massa e di difesa degli interessi di classe, indipendenza sindacale, ma non separazione a compartimenti stagni delle competenze tra sindacati e partiti. I sindacati e i partiti si occupano delle stesse cose: la vita quotidiana degli uomini e delle donne, ma in una prospettiva diversa.

Le elezioni, il parlamento e la democrazia

Il rapporto con la tattica parlamentare è un buon esempio di politica leninista. Esso comincia dalla strategia: “l’azione delle masse […] è più importante dell’attività parlamentare in ogni situazione”. È la combinazione di varie forme di azione – legali, illegali, scioperi economici, politici, attività parlamentare, insurrezione – e la conquista del potere politico attraverso un processo rivoluzionario che distrugge “la vecchia macchina statale” e crea le condizioni di una nuova democrazia socialista.

Questa concezione elimina le illusioni riformiste della socialdemocrazia sul passaggio al socialismo attraverso la trasformazione graduale dello Stato, delle istituzioni e dell’economia capitalistica. Richiama la necessità della rottura con il capitalismo.

Una volta sgomberato il terreno strategico, occorrono anche delle mediazioni tattiche – lotte sindacali, elezioni – dialetticamente collegate alla strategia. In questo senso, l’opera costituisce uno straordinario manuale di tattica politica.

Lenin si oppone ai “sinistri” per i quali “il parlamentarismo è storicamente e politicamente superato”. Ma il problema è di non ritenere “ciò che è superato per noi [rivoluzionari] come superato per la classe, come superato per le masse”. Non bisogna scambiare i propri desideri per realtà. Al contrario, poiché milioni e milioni di lavoratori votano, bisogna partecipare alle elezioni. E si rivolge ai “sinistri” tedeschi dicendo loro: “È più difficile per l’Euroa occidentale iniziare la rivoluzione socialista di quanto non sia stato per noi. Tentare di aggirare questa difficoltà, saltando il difficile compito di utilizzare i parlamenti reazionari a fini rivoluzionari, è semplicemente puerile”.

Dunque, pur indicando come l’azione di massa sia più importante di quella parlamentare, Lenin non contrappone lotte, scioperi e partecipazione alle elezioni. Anche le posizioni istituzionali conquistate con le elezioni sono punti d’appoggio per l’azione di massa in una strategia di conquista del potere. Torna anche, in questo testo, sulle condizioni di un possibile boicottaggio delle elezioni: nel caso in cui la rivoluzione bussa alla porta e apre una prospettiva diversa dalla partecipazione elettorale, ad esempio alle elezioni del 1905 al parlamento russo.

Ma in generale Lenin si pronuncia per la partecipazione alle elezioni: “Fino a che non siete in grado di sciogliere il parlamento borghese e tutte le altre istituzioni reazionarie d’altro tipo, avete l’obbligo di lavorare all’interno di tali istituzioni […]”. È quindi solo quando appare un nuovo potere delle classi popolari, e più precisamente un nuovo potere accentrato, affermato, che ci si può sbarazzare delle vecchie istituzioni parlamentari. E ritorna sul problema dei rapporti tra i bolscevichi e l’Assemblea costituente in questi termini: “ Deriva di qui una conclusione assolutamente incontestabile: è dimostrato che persino alcune settimane prima della vittoria della repubblica sovietica, e persino dopo questa vittoria, la partecipazione a un parlamento borghese non solo non danneggia il proletariato rivoluzionario, ma anzi lo aiuta a dimostrare alle masse arretrate perché questi parlamenti meritino di essere sciolti, rende più agevole lo scioglimento di questi parlamenti, facilita il superamento politico del parlamentarismo borghese”.

È quel che hanno fatto i bolscevichi con l’Assemblea costituente convocata e sciolta nel gennaio 1918. Se la priorità strategica è la distruzione della vecchia macchina di Stato e la costruzione di un nuovo potere, Lenin ricorda che non si può superare la vecchia democrazia borghese se non quando milioni di persone hanno fatto l’esperienza del suo fallimento e quella della superiorità delle nuove forme di democrazia socialista.

Dopo la presa del potere in Russia, Lenin scioglie l’Assemblea costituente, sopprimendo di colpo questa istituzione politica rappresentativa dei cittadini della nuova repubblica sociale. Su questo, noi condividiamo piuttosto il punto di vista di Rosa Luxemburg. Rosa si rende conto della decisione bolscevica di sciogliere una Costituente convocata in base a un registro elettorale superato, ma chiede la convocazione di una nuova assemblea. Solleva inoltre un altro problema chiave nella transizione al socialismo: senza elezioni generali, senza un’illimitata libertà di stampa e di riunione, senza una libera battaglia di opinione, la vita languisce in tutte le istituzioni pubbliche, vegeta, e la burocrazia rimane l’unico elemento attivo.

Si è inoltre colpiti, rileggendo il testo, di vedere come Lenin vigili sull’utilizzazione fino in fondo dei parlamenti borghesi, ma non affronti i problemi di democrazia politica nella Russia del 1918-1920, sia da un punto di vista generale, sia nel funzionamento dei consigli e delle organizzazioni delle masse. Possiamo immaginare che giochi, in questo, una situazione legata all’assenza di tradizioni democratiche anche borghesi nella Russia zarista, con in più una congiuntura eccezionalmente segnata dalla guerra civile che colpisce l’URSS all’epoca, guerra civile che limita le libertà e l’esercizio della democrazia. Eppure, l’intera storia del partito bolscevico è contrassegnata da dibattiti, da lotte di tendenze e di frazioni, incluso nel fuoco della prova rivoluzionaria del 1917. Vi è un cambiamento nei mesi e negli anni successivi alla presa del potere.

Al di là delle circostanze, infatti, sia i documenti – tranne il folgorante Stato e Rivoluzione di Lenin – sia la pratica della direzione bolscevica dopo qualche anno di esercizio del potere, dalla crisi di Kronstadt alla devitalizzazione della vita dei soviet – indicano che c’è su questo una debolezza fondamentale, che avrà conseguenze terribili sul corso della rivoluzione, e disarmerà i bolscevichi di fronte a Stalin, diventato Segretario generale del Partito comunista nel 1922, e allo stalinismo.

Partito, fronte unico e alleanze politiche

Ogni questione posta in questo opuscolo delinea la “realpolitik” leninista: analisi non dogmatica dei rapporti di forza, delle lotte di classe, combinazione tra delimitazione “partitica” e tattiche politiche audaci.

Delimitazione a partire dall’ottobre 1917 nel raggruppamento e nell’organizzazione di tutte le correnti che appoggiano la rivoluzione russa e partecipano attivamente ai processi di autorganizzazione operaia e popolare attraverso i consigli di operai, di contadini, di soldati. A partire di qui, Lenin ricercherà la fusione in seno ai nuovi partiti comunisti dei socialisti indipendenti, dei sindacalisti rivoluzionari, degli anarchici, in breve delle correnti alla sua sinistra e alla sua destra. Specie in quel momento storico, e una volta delimitata la base politica, Lenin impegnerà tutte le sue forze per raccogliere, convincere, conquistare tutte le forze che vogliono partecipare alla tempesta rivoluzionaria dell’epoca. Non si tratterà di costruire organizzazioni con rigide delimitazioni settarie – di qui le polemiche affrontate in questo testo – e meno ancora sette, cosa di cui accusa i “sinistri dell’internazionale comunista”.

I suoi criteri per riunire i militanti in questi partiti rivoluzionari di massa non erano ideologici ma pratici: chi sostiene la rivoluzione russa? Chi si impegna nella lotta contro il potere costituito? Chi partecipa alla lotta reale? Chi sostiene una politica indipendente dalla socialdemocrazia? Possono esservi tante divergenze, ma egli ricerca costantemente “una visione comune degli avvenimenti e dei compiti”. In tutte le dimostrazioni di Lenin, infatti, c’è sempre un obiettivo, un’intenzione, quella di accumulare forze per costruire lo strumento della conquista del potere. Le sue forme e le sue tattiche possono variare, ma la forma “partito” è la sola adeguata per rompere con il capitalismo.

Tattiche di alleanze politiche audaci per mobilitare e spostare milioni di uomini e di donne nella resistenza agli attacchi capitalistici. Ai sinistri che lo esortano a “non fare più compromessi”, Lenin risponde che il ruolo del partito è di accumulare esperienze, con il fiuto che consente di scegliere quali compromessi siano indispensabili in momenti precisi. Lenin espone le molteplici tattiche di unità d’azione, e questo nell’Internazionale comunista prenderà il nome di fronte unico. Unità d’azione nelle lotte, unità d’azione elettorale o parlamentare, come quando propone che i comunisti inglesi concludano accordi temporanei con i laburisti votando per loro, o quando appoggia, contro il putsch Kapp-Lüttwitz, un’opposizione leale a un governo socialdemocratico e socialista indipendente senza ministri borghesi.

Tattiche di alleanze politiche, ma senza illusioni e soprattutto portate avanti senza interrompere la critica del proprio o dei propri alleati, e l’agitazione e la propaganda per le proprie idee. Ad esempio, quando i comunisti tedeschi parlano del governo socialdemocratico come di governo socialista, li rimprovera severamente chiedendo loro di non chiamare “socialista” un governo socialdemocratico che resta un governo borghese. Consiglia loro di affiancare a questa opposizione leale la denuncia della loro politica di collaborazione di classe. Questo dimostra, ancora una volta, che occorre avere una tattica adeguata per ogni governo di sinistra in funzione della sua politica, ma che non bisogna soprattutto confondere accordi e compromessi tattici momentanei, da un lato, e strategia, dall’altro lato.

Lenin, infatti, rifiuta regolarmente di partecipare a governi di collaborazione di classe con la borghesia. Sostiene la prospettiva di governo operaio, vale a dire di governo di coalizione con socialisti rivoluzionari di sinistra in Russia o dei socialisti indipendenti in Germania che si appoggiano su consigli operai, di contadini, di soldati e che cominciano ad applicare un programma di transizione al socialismo: controllo operaio, esproprio delle banche, la terra ai contadini, ecc. Tali governi di transizione verso il potere dei lavoratori e delle classi popolari possono avere un inizio parlamentare, ma durante un periodo di crisi rivoluzionaria devono, viceversa, non accostarsi alle forme parlamentari e stimolare, costruire, generalizzare le nuove forme di potere di una democrazia socialista.

Trotskij riprende gli insegnamenti della tatttica unitaria leninista nella politica di fronte unico contro il fascismo in Germania: “Il proletariato accede alla presa di coscienza rivoluzionaria non con un modo di procedere scolastico ma attraverso la lotta di classe, che non conosce interruzioni. Per lottare, il proletariato ha bisogno dell’unità delle sue file. Questo vale anche per i conflitti economici parziali, sia entro i muri di una fabbrica, sia negli scontri politici “nazionali” come la lotta al fascismo. La tattica di fronte unico non è quindi qualcosa di occasionale e di artificiale, né un’abile manovra,, ma dipende completamente ed interamente dalle condizioni oggettive dello sviluppo del proletariato” (La Rivoluzione tedesca e la burocrazia stalinista, 1932)

Preciserà anche il campo più favorevole per l’unità tra rivoluzionari e riformisti: “Gli accordi elettorali, i mercanteggiamenti parlamentari conclusi dal partito rivoluzionario con la socialdemocrazia, servono, in linea generale, alla socialdemocrazia. Un accordo pratico per azioni di massa, per fini militanti si fa sempre a vantaggio del partito rivoluzionario […] Marciare separatamente, colpire insieme! Su questo punto, ci si può mettere d’accordo con il diavolo”.

Come spiega infatti Daniel Bensaïd: “Il fronte unico ha sempre un aspetto tattico. Le organizzazioni riformiste non sono tali per confusione, incongruenza o mancanza di volontà. Esprimono cristallizzazioni sociali e materiali […] Le direzioni riformiste possono quindi essere alleati politici tattici per contribuire a unificare la classe. Ma restano strategicamente potenziali avversari. Il fronte unico punta dunque a creare le condizioni che consentano di rompere con queste direzioni nel rapporto di forze migliore possibile, al momento di scelte decisive, e a staccarne le masse più ampie possibili” (Crise et stratégie, 1986).

Tattiche e strategia, quindi, non puntano a contrapporre compromesso e rottura, riforme e rivoluzione, ma a legarle per preparare le condizioni dell’“irrompere delle masse sulla scena politica e sociale” e rompere con il sistema capitalistico.

Naturalmente, la situazione attuale è ben diversa da quella con cui aveva a che fare Lenin. Da molto tempo non abbiamo vissuto situazioni rivoluzionarie in Europa occidentale. L’attuale sinistra non ha più granché a che vedere con la socialdemocrazia degli anni Venti, o anche quella che è vissuta fino agli anni Settanta. La globalizzazione capitalistica e il social liberismo hanno ampiamente eroso la base sociale e popolare classica della socialdemocrazia. Al di là dei risultati elettorali, i partiti socialisti hanno perso centinaia di migliaia di iscritti in tutta l’Europa, e i loro legami con le organizzazioni sindacali e con i movimenti sociali si sono qualitativamente affievoliti. Certo, la destra e la sinistra non sono la stessa cosa, perché non hanno la stessa storia, lo stesso posto e la stessa funzionalità nel sistema di alternanze e gli stessi rapporti con le masse popolari. Nelle mobilitazioni quotidiane contro il padronato o il governo, gli anticapitalisti fiancheggiano gli elettori o i militanti socialisti, ma è difficile che oggi questi anticapitalisti propongano una politica di opposizione leale a un governo Strauss-Kahn. Pur facendo l’analisi concreta della politica concreta di ciascun governo, si tratterebbe piuttosto di opposizione e basta!

Trotskij è sempre stato circospetto sui fronti unici elettorali con i partiti riformisti ma, con gli sviluppi social liberisti della sinistra tradizionale, l’indipendenza da quest’ultima è sempre più una questione decisiva.

L’estremismo

In ogni lotta, ogni movimento, ogni organizzazione, possono esservi posizioni o reazioni estremiste spontanee o semispontanee, di fronte alla terribile ingiustizia sociale che vive questo o quel settore delle classi popolari – estremismo che si manifesta in azioni isolate e che la stragrande maggioranza non capisce. Se queste rappresentano una certa realtà, gli anticapitalisti possono sostenerle. In altri casi, occorre opporvisi.

Ma vi sono anche idee e progetti estremisti che vanno combattuti. In un contesto di indebolimento dell’ideale rivoluzionario, ci troviamo, ad esempio, di fonte ad atteggiamenti o a posizioni, quali quelle dell’autonomia, che da un lato rifiutano le elezioni, i sindacati – manifestazioni tipicamente estremiste – ma dall’altro non si collocano più in una prospettiva di cambiamento rivoluzionario, come ad esempio un John Holloway, che propone di “cambiare il mondo senza prendere il potere”. Una posizione distante anni luce da Lenin.

Restano anche organizzazioni o sette che si rifanno a posizioni o correnti storiche ultrasinistre del movimento operaio. Su questo, un vecchio dibattito continua.

Strategie e tattiche politiche per l’oggi

Tenendo conto dei cambiamenti storici di fondo che conoscono il capitalismo e i movimenti sociali, vanno conservate, di Lenin, le capacità di misurare la temperatura della storia, di fare l’analisi marxista concreta di una situazione concreta, di innalzare incessantemente il livello della combattività e della coscienza popolare con nuove iniziative politiche. Occorre rivisitare i momenti in cui una proposta politica o una parola d’ordine concentra tutta una situazione politica e crea le condizioni del movimento più vasto. Da questo punto di vista, Lenin è sempre attuale!

Là dove il dente duole, ne abbiamo accennato sopra, è la questione della democrazia dei consigli, delle assemblee e del partito nella Russia di dopo la rivoluzione. Gli odierni anticapitalisti, con la debita prospettiva storica, e soprattutto ricavando gli insegnamenti del secolo scorso, criticano, completano, arricchiscono, integrano e superano la concezione leninista della democrazia.

Si tratta di riallacciarsi alle tradizioni rivoluzionarie che danno tutto il posto che spetta loro ai processi di autorganizzazione e di auto emancipazione democratica e popolare.

Un numero crescente di persone evolvono verso il rifiuto del capitalismo e ricercano un’alternativa. Si liberano in parte dell’influenza dell’deologia borghese che grava sulle coscienze e limita l’orizzonte dei movimenti di emancipazione al solo riformismo. Per battere in breccia tutti i tentativi fatti, a destra come a sinistra, per rafforzare l’ideologia borghese, l’ideologia delle classi dominanti, è indispensabile leggere, diffondere e discutere ampiamente il pensiero e l’azione di Marx e di Lenin. Non come un catechismo, ma per ricavarne una rinnovata comprensione delle sfide di ieri e di oggi.

Con la sua critica dell’economia politica, Marx ha scoperto la teoria del valore che spiega la dinamica e le crisi del capitalismo. Ha anche creato, insieme ad altri, la Lega dei comunisti, poi l’Associazione internazionale dei lavoratori, e avviato il processo di mobilitazione popolare per rompere con il capitalismo. Lenin ha creato il concetto di partito rivoluzionario di massa. Ha sperimentato con successo la strategia e le tattiche di conquista del potere politico fondate sulla critica del riformismo, dell’opportunismo e, su un piano diverso, quella dell’estremismo.

In una prospettiva critica, gli insegnamenti del leninismo restano tra i più utili per orientarsi e costruire i partiti anticapitalisti di oggi e di domani. Per rompere con il capitalismo, “l’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi”, e questo librccino di Lenin è indispensabile per capire le tattiche e le strategie politiche di ieri e immaginare quelle di oggi e di domani.

(Traduzione di Titti Pierini)

*François Sabado è uno dei dirigenti storici della LCR. Membro de la IV Internazionale, è uno dei fondatori del NPA (Nuovo Partito Anticapitalista) francese..

Da: Europe Solidaire Sans Frontières – http://www.europe-solidaire.org/ – 15 aprile 2011]. Il testo che traduciamo in italiano costituisce la Prefazione di François Sabado alla riedizione francese (Lénine, Petit Manuel pour rompre avec le capitalisme, Démopolis, Parigi, 2011, pp. 208, 13 €.- ISBN: 978-2-35457-041-5) de L’estremismo, malattia infantile del comunismo, scritto da Lenin nell’aprile-maggio del 1920 [tr. it.:in: Lenin, Opere, vol. XXXI, Editori Riuniti, Roma, 1967, pp. 11-108].

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