di Josep Maria Antentas
Report presentato al Bureau della IV Internazionale,
da International Viewpoint, 22/11/2012
1. L’economia europea continua a soffrire della crisi. Lo stesso FMI prevede che il 2012 si chiuderà con una “crescita” del – 0,4%, e nel 2013 con un 0,2%. La recessione è particolarmente pesante nei paesi della periferia, soprattutto in Grecia e nello Stato spagnolo (quest’ultimo presenta un dato negativo del 1,5 e 1,3% nel 2012 e 2013) e con una crescita debole nel centro – la Germania prevede una crescita del 0,9%: la stagnazione economica generale e le politiche di austerità influiscono negativamente sulla Germania, le cui esportazioni verso il resto d’Europa tendono a calare (meno 11,4% in generale, verso il Portogallo – 15,8%, verso la Grecia – 9%, e verso l’Italia – 8,6%) e non sono compensate da un aumento delle esportazioni verso gli Stati Uniti e la Cina.
La crisi genera tensioni in tutto l’edificio dell’UE e nell’Eurozona, accentuando le dinamiche neocoloniali interne e centro-periferia. In questo contesto l’Europa mediterranea è diventata il luogo in cui si condensano tutte le tensioni politiche e sociali della crisi. Il futuro dell’euro continua ad essere incerto, anche se la politica della Germania è quella di mantenere la moneta unica, tirando la corda senza romperla, in quanto necessaria per promuovere le sue esportazioni. La continua fuga di capitali dalla periferia verso il centro (lo Stato spagnolo ha subito deflussi tra il giugno 2011 e il giugno 2012 di 296,000 milioni di euro, il 27% del PIL nel 2011, mentre l’Italia ha registrato l’uscita di 235,000 milioni di euro, il 15% del PIL nel 2011), e il differenziale tra tassi d’interesse del debito sovrano di paesi come la Germania e la Spagna e l’Italia esemplificano la situazione di rischio per l’euro.
La questione prioritaria che segna l’agenda europea è il salvataggio dello Stato spagnolo che viene pianificato da mesi nella politica europea: apparentemente imminente da diverse settimane, ora sembra allontanarsi un poco. Al di là dei dubbi del governo spagnolo e soprattutto della stessa Germania, la questione rimarrà ancora sul tavolo, in uno scenario dove rimangono coinvolte anche Italia, Cipro e Slovenia. In Grecia la crisi politica non finirà di peggiorare e la strategia della Troika è quella di costruire un fossato intorno ad essa, così che se fosse necessario scollegare il paese ellenico dall’euro, possa evitare un effetto domino.
In questa situazione, il dibattito sull’euro guadagna terreno tra la sinistra europea, anche se l’unico paese in cui è in corso un ampio dibattito reale al di là di circoli ristretti è certamente la Grecia.
A suo tempo la sinistra anticapitalista si oppose alla creazione dell’euro, in quanto progetto al servizio delle principali potenze economiche dell’UE e pericoloso per i lavoratori; una volta entrato in vigore e consolidatosi come realtà apparentemente ineluttabile, la posizione più corretta è stata quella di mettere l’accento su una necessaria rottura in chiave internazionalista e solidale (opposizione a tutti i Trattati, Costituzioni, Direttive…), senza porre la questione nei termini di uscita o meno dalla UE o dall’euro.
Sottolineare la necessità di una rottura con l’Europa del Capitale in chiave internazionalista e non di ripiego nazional/statale rimane una questione strategica. Tuttavia, l’evoluzione della situazione mette sul tavolo la questione specifica della moneta, dell’Euro, che non appare più come una realtà irreversibile. Non è possibile in questo contesto fare dell’uscita dall’Euro un tabù e nemmeno dare per scontata la sua esistenza come lo era prima della crisi.
Tuttavia, non penso che si debba porre l’uscita dall’euro come una rivendicazione programmatica a priori, o considerare il dibattito sulla moneta come prioritario, quanto porre la questione di una uscita dall’Euro come conseguenza possibile di una rottura delle politiche di austerità: sospensione del pagamento del debito, non applicazione delle politiche di aggiustamento e revoca dei tagli effettuati, espropriazione delle banche … Vale a dire che un eventuale governo di sinistra in qualsiasi paese europeo più che uscire volontariamente dall’Euro quello che dovrebbe fare è rompere con le politiche imposte dalla Troika e mettere in conto la possibilità di un’espulsione dall’euro, anche se questo non è certo al 100% che accada, soprattutto se il cambio avvenisse in un paese economicamente rilevante (Stato spagnolo, Italia …) per le possibili conseguenze per la sopravvivenza dell’euro stesso.
Di fronte ad uno scenario di “disobbedienza” da parte di un paese alle politiche della Troika, questa si vedrebbe da un lato costretta a punire tale insubordinazione, per evitare che l’esempio possa estendersi, ma allo stesso tempo potrebbe avere anche difficoltà a espellere drasticamente uno stato dell’Eurozona se questo avesse un forte peso economico, o più stati se tale insubordinazione avvenisse contemporaneamente. Un governo di sinistra dovrebbe essere preparato a uscire dall’Euro e dovrebbe preparare la popolazione a questa evenienza, ma non vedo alcuna utilità nel sostenere un’uscita volontaria a priori.
2. Quello che è in corso è un ampio progetto di riorganizzazione sociale e di trasformazione del modello sociale sulla base del disegno del capitale finanziario. Non è un progetto finito, o un insieme coerente e pianificato in ogni particolare, ma certamente è in gioco un drastico cambiamento del modello sociale attuale. Nella periferia europea assistiamo ad una “latinoamericanizzazione”/terzomondializzazione” del modello sociale (disuguaglianze, disgregazione sociale, aumento della violenza …); nel centro continentale si fa sempre più forte la distruzione del “modello sociale europeo” e di ciò che resta del “capitalismo renano” in direzione di un capitalismo selvaggio non regolamentato, verso una sorta di “americanizzazione” del continente. Questa è stata la traiettoria della Germania dopo le riforme di Schroeder e le leggi Hartz all’inizio del secolo.
La trasformazione del modello sociale implica un cambiamento di regime politico, con un approfondimento e intensificazione dell’involuzione oligarchica delle democrazie parlamentari. Siamo di fronte ad un vuoto di contenuto politico, un’implosione dei tradizionali meccanismi democratico-istituzionali dei paesi europei a causa della subordinazione politica agli interessi del capitale finanziario, le cui massime espressioni sono stati i “colpi di stato finanziari” in Grecia e in Italia e la collocazione di uomini di Goldman Sachs in posti chiave istituzionali della UE e di diversi paesi. In tempi di crisi, meglio prendere direttamente il timone della nave.
Nei paesi della periferia. la crisi economica e sociale diventa una crisi politica sempre più profonda, con processi crescenti di delegittimazione delle istituzioni e dei principali partiti politici e di rifiuto nei confronti dell’élite finanziaria.
In Grecia, il caso più avanzato, si verifica una crisi di egemonia che continua a peggiorare e che ha causato un’esplosione del sistema partitico tradizionale. Nello Stato spagnolo il rigetto di “politici e banchieri”, che è stato lo slogan fondamentale del 15M, continua ad aumentare e sta portando ad una dinamica crescente di “crisi di regime” in cui si mescolano il disgusto per le istituzioni dello Stato (compreso il re, anche se in formza più sfumata) e per i due maggiori partiti per la loro gestione della crisi a favore dei banchieri, con una crisi dello Stato e la crescita dell’ndipendentismo in Catalogna e Euskadi.
L’approfondimento delle conseguenze politiche della crisi in Grecia, Portogallo e nello Stato spagnolo, del sistema dei partiti tradizionali, delle tensioni sociali e dei problemi di “governabilità” fanno prevedere un deterioramento della situazione politica nei paesi nei quali la tradizione “democratica” delle loro élite politiche ed economiche è già piuttosto superficiale e storicamente poco radicata. Aumenterà la repressione delle forze di polizia, verrano approvate leggi più severe e ci saranno violazioni ripetute da parte del potere della sua stessa legalità e delle regole del gioco quando sarà ritenuto necessario, nel quadro di una crescente involuzione autoritaria della vita politica e sociale, alla quale si aggiunge l’aumento o la comparsa di forze di estrema destra. Il ricorso a soluzioni autoritarie, la cui realizzazione può assumere forme differenti, diventerà sempre più un’ipotesi reale per la classe dominante, nella misura in cui si acutizza la crisi di legittimità e i meccanismi di dominazione tradizionali si decompongono.
3. La socialdemocrazia a livello europeo non presenta alcuna alternativa alle politiche attuali, e nemmeno possiede un’agenda per l’uscita dalla crisi differente da quella della destra e dello stesso capitale finanziario. Nei paesi della periferia la socialdemocrazia (PASOK, PSOE, PS …) ha collaborato attivamente alla realizzazione delle misure di aggiustamento; in Germania la SPD non mette realmente in discussione né le politiche di austerità della Merkel, né l’analisi ufficiale della crisi che colpevolizza i “lavoratori del Sud”.
Non possiamo escludere che in futuro una maggioranza socialdemocratica in paesi chiave dell’UE possa prendere qualche provvedimento lievemente differente o dare un po’ di “respiro” ai paesi in situazione peggiore, scegliendo di aprire un po’ la valvola di sfogo con l’obiettivo di alleviare l’aggravamento delle tensioni sociali, ma difficilmente si produrrebbe un serio cambio di direzione. Nonostante tutta la pompa mediatica, le aspettative sorte con l’elezione di Hollande (per chi le avesse avute) sono state rapidamente tradite, malgrado tutte le promesse elettorali; il progetto di bilancio del suo governo conferma l’impegno a politiche di austerità (riduzione del disavanzo dal 4,5 al 3% per l’anno venturo e allo 0% nel 2017) e l’appoggio al “patto di bilancio” a livello europeo.
La socialdemocrazia si presenta oggi come una corrente storicamente esaurita e senza un progetto politico autonomo. Dove ha applicato politiche di austerità paga un enorme prezzo politico; ciò nonostante mantiene ancora, in forme differenti nei diversi paesi, grandi apparati politico-elettorali, radicamento in alcuni settori della società e dei sindacati, il controllo o la vicinanza a mezzi di comunicazione di massa e, nonostante tutto, una quota significativa di sostegno elettorale in molti paesi (Gran Bretagna, Germania …) e per questo rimane l’unico ricambio disponibile ai governi conservatori oggi esistenti.
Nell’Europa mediterranea la crisi della socialdemocrazia è in aumento, anche se con gradi differenti. In Grecia il PASOK è stato distrutto e i sondaggi lo collocano sotto il 10%; nello stato spagnolo il PSOE non cresce nei sondaggi e non riesce a capitalizzare il disgusto nei confronti del governo di destra del PP e, al contrario, perde sostegno elettorale e credibilità sociale ogni giorno di più; in Portogallo il PS mantiene un’importante percentuale elettorale e capitalizza in qualche modo il discredito del governo di Passos Coelho combinando un ipocrita radicalismo verbale contro i tagli e l’appoggio di fondo alle politiche di austerità: tutto fa però pensare che quando dovesse cadere il malconcio governo di Passos Coelho, il PS dovrà nuovamente impegnarsi nella gestione dell’austerità, sia in un governo di unità nazionale o in altra forma, che inevitabilmente lo consumerà politicamente in maniera irreversibile.
Sprovvista di un progetto di trasformazione e convertita in fedele servitore del potere finanziario nel momento in cui questo sacrifica la maggioranza della società pur di salvare sé stesso, nel sud dell’Europa la socialdemocrazia entra in contraddizione e in collisione con la sua base sociale.
Prorpio la socialdemocrazia era stata determinante nella formazione dei regimi postdittatoriali negli anni settanta in Grecia, Portogallo e nello Stato spagnolo e la sua forte crisi in questi paesi è un riflesso della più generale crisi dell’ordine politico costituito da allora.
4. L’inizio di una nuova fase di lotte sociali dal 2011 è evidente, anche se con caratteristiche e dimensioni differenti nei diversi paesi europei, dove acquista una dimensione di massa o di “ribellione” popolare solo nei paesi periferici meditterranei (con eccezioni forti, come nel caso italiano) o in alcuni paesi dell’Europa dell’Est (Romania, nei primi mesi del 2012 …). In altri paesi, come la Gran Bretagna, la lotta contro le politiche di austerità è significativa rispetto agli standard abituali in questo paese, come ha mostrato la manifestazione del 20 ottobre scorso.
L’attuale ondata di lotte ha un evidente limite, in termini geopolitici, nel non aver ancora raggiunto la Francia, paese fondamentale nella resistanza al neoliberismo fin dal 1995, e l’Italia, dove la situazione sociale non è ancora esplosa alla “spagnola”. Senza alcun determinismo, si può prevedere che nella misura in cui le politiche di aggiustamento diventeranno più potenti, insieme all’instabilità dovuta alla crisi, anche questi paesi presto o tardi avranno il loro 15M, che avrà modalità proprie e inaspettate, sbloccando la situazione e segnando l’ingresso in una nuova fase.
L’internazionalizzazione del movimento “indignato” e “occupy” e delle nuove resistenze all’austerità è molto diversa. Il 15 ottobre del 2011 ha rappresentato un momento di crescita importante e una giornata di azione globale significativa, alla quale sarebbero seguite dopo qualche mese la proteste di Blockupy Frankfurt nel maggio 2012, nel cuore del potere finanziario continentale.
Ma il nuovo movimento non è ancora stato in grado di darsi strutture internazionali né piattaforme di lavoro solide per dare vita ad una dinamica di coordinamento internazionale che vada oltre le giornate globali di azioni simboliche, come ad esempio il recente 13 ottobre. (1)
In questa fase è necessario lavorare in una triplice dinamica: dare vita a resistenze nazionali-statali contro i tagli; proteste globali tipo 15O o 13O; azioni di solidarietà specifiche con i paesi periferici colpiti dai programmi di aggiustamento strutturale, con priorità alla Grecia e allo Stato spagnolo.
La logica del ciclo attuale è difensiva di fronte ad un aumento senza precedenti degli attacchi, e si sviluppa in rapporti di forza globali molto sfavorevoli, ma contiene elementi offensivi al suo interno, nel senso di essere dirompente, in grado di destabilizzare il funzionamento routinario delle istituzioni, con una capacità di contrattaccare. Le lotte sociali non hanno raggiunto una dinamica di vittorie che permettano un accumulo di forza crescente e le grandi battaglie che sono state combattute in tutta l’UE l’anno scorso sono andate perdute. Ci possono essere, tuttavia, alcune possibilità di concrete vittorie parziali in futuro, come nel caso di una ristrutturazione del debito, per esempio, nello stato spagnolo.
L’eccezione più importante è la recente vittoria in Portogallo, dove le proteste del 15 settembre hanno ottenuto rilevanti modifiche delle misure decise dal governo. In questo modo trasmettono il messaggio, ancora da generalizzare, che “cambiare si può!”.
La traduzione delle mobilitazioni in organizzazione collettiva stabile (associativa, sindacale, politica …) è ancora molto debole (assemblee di quartiere instabili e deboli …). La sfida è come ricostruire un nuovo blocco sociale, le cui basi sono ancora fragili e liquide, in una società frammentata e destrutturata, capace di articolare gli interessi comuni oltre la realtà della pluralità sociale.
Nonostante la mancanza di vittorie, e in una condizione di disperazione nella vita quotidiana, non sembra esserci un sentimento di sconfitta nelle società colpite dalle politiche di aggiustamento strutturale. Anche in Grecia, dove gran parte della popolazione ha percepita la sconfitta di Syriza come la fine dell’ultima speranza contro l’austerità, non assistiamo ad una sensazione di sconfitta definitiva, una rassegnazione finale. Non è stata gettata la spugna; al contrario, nella misura in cui le politiche di aggiustamento si allargano e approfondiscono in tutta la regione euromediterranea, la voglia di lottare si moltiplica.
5. La capacità di mobilitazione sociale e civica nelle piazze contrasta con le difficoltà di farlo nei luoghi di lavoro a causa della precarietà del lavoro, della disoccupazione e dei cambiamenti nella organizzazione della produzione (subappalti, esternalizzazioni…), elementi che ostacolano lo sviluppo di un nuovo sindacalismo militante e conflittuale. Il sindacalismo maggioritaro rimane fermo ad un modello istituzionalizzato orientato al “dialogo sociale” (concertazione), che è invece strategicamente fallito.
L’entità degli attacchi e la reazione sociale dal basso dei movimenti “indignati” spinge i sindacati maggioritari, in particolare nel Sud Europa, verso la lotta, ma senza che questo comporti un cambiamento di modello sindacale o una riflessione strategica sull’esaurimento del “dialogo sociale”; mantengono un orientamento zigzagante (mobilitazione, tentativo di dialogo sociale fallito, mobilitazione di fronte a nuove aggressioni e così via), divisi tra il loro orientamento verso un’impraticabile concertazione e la necessità di mobilitare per difendere i diritti sociali e il loro stesso futuro in quanto organizzazioni, ma ancora abbarbicati alla loro mentalità istituzionale e burocratica e la sceltà di non mescolarsi con le lotte e i movimenti sociali che non controllano.
A livello europeo, la “Confederazione europea dei sindacati” non offre alcuna alternativa coerente di resistenza ai piani di aggiustamento strutturale e nemmeno un tentativo di articolare la solidarietà internazionale di lavoratrici e lavoratori. La rottura tra i sindacati dell’Europa meridionale e quelli del centro e nord Europa è aumentata con il proseguire della crisi e l’attuazione delle politiche di aggiustamento. Questi ultimi accettano, in maniera più o meno esplicita, il racconto ufficiale dei governi del centro-nord Europa e della Troika secondo il quale la responsabilità della crisi è dei lavoratori del Sud Europa, poco produttivi, spreconi e che non pagano sufficienti imposte. Questo argomento serve ai governi e alle élite finanziarie centro e nord europee per spostare le contraddizioni sociali nazionali all’esterno delle loro regioni.
La settimana del 14 novembre, con scioperi generali in Portogallo, nello Stato spagnolo, in Grecia, Cipro e Malta, nel Belgio francofono e con uno sciopero di 4 ore indetto dalla Cgil in Italia, è un passo in avanti verso un maggiore coordinamento sindacale internazionale della risposta alle politiche di austerità, che va ben al di là di quello che è tradizionalmente stato fatto fino ad ora (giornate simboliche di mobilitazione sindacale continentale). La dimensione internazionale del 14N serve a rafforzare il successo delle stesse indizioni di sciopero nazionali-statali, perché forniscono loro maggiore credibilità e perché tende a generare nell’immaginario collettivo dei lavoratori euromeditterranei la percezione di far parte di un movimento internazionale di solidarietà e di resistenza alle politiche di aggiustamento .
Un “eurosciopero” o “sciopero euromediterraneo” serve per questo molto più che decenni di lavoro burocratico delle lobbies sindacali a Bruxelles. Se il 14N rimarrà un’eccezione è oggi di scarsa rilevanza. Se servirà a segnare un punto di svolta nell’internazionalizzazione delle strategie del sindacalismo ufficiale rappresenterà invece un passo avanti significativo, anche se non sufficiente.
6. La sinistra a sinistra della socialdemocrazia ha forti difficoltà a svilupparsi nel contesto della crisi e la traduzione politico-elettorale delle resistenze sociali rimane limitata e contraddittoria. La sinistra capitalizza il malcontento sociale meno dell’estrema destra o della destra populista. Le ragioni di fondo vanno ricercate in fenomeni già conosciuti: il peso delle sconfitte politiche degli ultimi decenni, l’assenza di riferimenti ideologici, la spoliticizzazione, la mancanza di credibilità dei partiti.
L’ascesa dell’estrema destra in tutto il continente si basa sul comune denominatore della xenofobia e dello sfruttamento del malcontanto sociale derivato oggi dalla crisi e in precedenza dalla distruzione dello stato sociale in decenni di politiche neoliberiste. L’estrema destra prende la forma, anche se con diverse varianti a seconda del paese, di una “destra nazionale” populista (che in alcuni casi è una destra neofascista “camuffata”), con l’eccezione di “Alba Dorata” in Grecia i cui modelli diretti sono il fascismo e il nazismo degli anni Trenta.
La disaffezione dei cittadini verso i partiti maggiori, in ogni caso, aumenta così come la punizione elettorale nei confronti dei governi (di destra o social-liberali) in carica in ciascun paese. E nei paesi della periferia la socialdemocrazia, come sottolinevamo in precedenza, soffre una crisi storica perché è entrata in contraddizione con la sua base sociale. Appaiono in diversi posti fenomeni la cui comparsa esprime sia questi disaffezione e malessere da un lato, e dall’altro l’assenza di coerenti visioni alternative: è il caso per esempio dei successi del Partito Pirata prima in Svezia e poi in Germania, con un voto di giovani di classe media che non si identificano più con la socialdemocrazia e i Verdi (e, per quanto si tratti di un fenomeno molto diverso, si può citare il caso della candidature populista e demagogica di Beppe Grillo in Italia). Malgrado tutto, il contesto composto dalla crisi capitalista e dall’aumento delle lotte sociali e da una ri-politicizzazione (per quanto partendo da un livello molto basso) rappresenta uno sfondo favorevole alle forze di sinistra in Europa.
A sinistra della socialdemocrazia i rapporti di forza tra le correnti anticapitaliste e rivoluzionarie e le forze riformiste si è deteriorata a favore delle seconde, ancora di più nell’ultimo periodo. Molte formazioni riformiste beneficiano elettoralmente del discredito della socialdemocrazia e dell’assenza di forti alternative anticapitaliste, anche se anche quelle forze riformiste non tutte stanno attraversando un buon momento, e alcune importanti tra esse, come ad esempio Die Linke in Germania, hanno registrato un significativo indebolimento. I Verdi, allo stesso tempo, vivono sorti diverse a seconda dei paesi, ma in generale (con alcune eccezioni specifiche – come la Gran Bretagna) sono diventati una forza molto istituzionalizzata e molto spostata a destra. La sinistra anticapitalista europea sembra credibile, in molti paesi, sul piano sociale e militante, ma non sul terreno elettorale. La campagna presidenziale del NPA con Potou rappresenta un esempio di questo (come, a livello molto più modesto, le diverse campgne elettorali di Izquierda Anticapitalista nello Stato spagnolo): Poutou raccoglie un modesto 1,1% (molto piccolo rispetto al 11’1% di Mélenchon e dei precedenti 4% di Besancenot) ma l’eco politica e le simpatie raccolte dalla candidatura e dalle sue proposte sono andate molto al di là dello stesso risultato elettorale, e hanno trovato simpatie anche in persone che hanno poi optato strumentalmente per Mélenchon.
Con il declino del NPA la sinistra anticapitalista è “scomparsa” come corrente visibile sul terreno mediatico-elettorale europeo di fronte ad una sinistra riformista antiliberista, anche se rimane una corrente significativa sul piano militante e dell’attivismo sociale.
Formazioni anticapitaliste larghe, come il Bloco in Portogallo o l’Alleanza Rosso-Verde in Danimarca hanno scarsa visibilità continentale e, in mancanza di un polo anticapitalista europeo, la loro politica tende ad allinearsi a quella del Partito della Sinistra Europea costituito da Izquierda Unida, Fronte de gauche, Die Linke e altri. Non dobbiamo necessariamente pensare che questa mancanza di visibilità di una forte sinistra anticapitalista sia data una volta per tutte e sia stabile e che quindi non si possa produrre un cambiamento. Negli ultimi dieci anni abbiamo già assistito ad “ascese” e “cadute” rapide di forze diverse (PRC in Italia, Die Linke in Germania, NPA in Francia …) e non dobbiamo quindi considerare l’attuale scenario francese, per esempio, come fisso e irreversibile, anche se va visto come una realtà oggi ineludibile e con la quale fare i conti.
Le prospettive per la maggior parte delle organizzazioni anticapitaliste e rivoluzionarie europee, salvo alcune eccezioni nazionali, sono quelle di poter costruire forze militanti, con peso rilevante nelle lotte, senza la capacità, almeno nel breve termine, di diventare referenti politico-elettorali forti, nel momento in cui questo sarebbe più necessario che mai di fronte all’avanzata delle politiche di aggiustamento e della riorganizzazione sociale che comportano. Questo è il motivo per cui è necessario inserire la costruzione di organizzazioni anticapitaliste e rivoluzionarie nel contesto di una prospettiva più ampia di costruzione di nuovi strumenti politici unitari che avranno forme differenti in ogni paese e che possano acquisire ascolto e influenza di massa.
La crescita di Syriza segna la dinamica della sinistra europea, la quale tutta è stata messa in questione dalla sua irruzione. È diventata il punto di riferimento in Europa della possibilità di articolare un progetto politico-elettorale in grado di mettere in discussione l’egemonia della socialdemocrazia e avere una vocazione maggioritaria. Se non commetterà grandi errori, la sua influenza sulla sinistra europea prevedibilmente aumenterà in un contesto di assenza di altri riferimenti forti.
Syriza non è una formazione anticapitalista e la sua direzione si colloca in posizioni “riformiste di sinistra”, con un programma e una strategia che non vanno “a fondo” con una reale impostazione di rottura; è però un progetto che si colloca a sinistra di Izquierda Unida, del Front de Gauche, o Die Linke. La sua componente riformista di sinistra convive con correnti radicali al suo interno che, sebbene minoritarie, hanno un certo peso e, soprattutto, il progetto politico di Syriza si sviluppa in un contesto di rivolta popolare.
L’evoluzione di Syriza è incerta e sarà sottoposta a due pressioni contrastanti: la logica della governabilità e della rispettabilità istituzionale da un lato, e la crescente radicalizzazione sociale a seguito dell’intensificazione degli attacchi sociali, dall’altro.
Noi anticapitaliste/i non dobbiamo idealizzare Syriza acriticamente, e nemmeno avere un atteggiamento settario. Dobbiamo rivendicare ciò che ci appartiene in essa e mostrare la nostra simpatia per la sua crescita sociale ed elettorale e per quello che significa così come cercare un’interlocuzione con la sua direzione politica e approfondire le relazioni con le sue correnti di sinistra. Al di là della “Syriza reale”, il “simbolo Syriza” è diventato l’esempio che “è possibile” costruire un’alternativa. Questo è il significato principale per la sinistra europea.
7. Nei paesi dove si è sviluppata una rivolta sociale contro i piani di aggiustamento assistiemo ad una forte politicizzazione della società, anche se si tratta di una politicizzazione contraddittoria e che ricomincia partendo dal basso e senza riferimenti precisi (politici, culturali, intellettuali, storici, organizzativi … ), o con riferimenti troppo confusi e con risultati effettivi poco definiti (anche se, paradossalmente, appaiono spesso idealizzati – come nel caso della “rivoluzione” islandese o dei processi latino-americani).
Questa politicizzazione non spinge ancora all’organizzazione di nuovi strumenti politici e nemmeno di strutture sociali stabili, ma ha lasciato alle spalle il periodo che Daniel Bensaid chiamava “illusione sociale” della autosufficienza della lotta sociale degli anni novanta e nel primo decennio del secolo XXI, o le idee di “cambiare il mondo senza prendere il potere” stile Holloway (non a caso le rivoluzioni arabe, con il loro obiettivo popolare di rovesciare il potere e di far cadede i regimi dittatoriali sono l’evento fondante che rimane nella mente della gioventù radicalizzata che lotta contro l’austerità in Europa). Sempre più spesso, la “questione politica” sembra ineludibile di fronte alla virulenza degli attacchi alle condizioni di vita da parte del potere e alla delegittimazione che quegli attacchi provocano, proprio per la loro profondità, a partiti e istituzioni. In termini storici la variabile più importante è l’integrazione della maggior parte degli attivisti sociali, della sinistra sociale oggi non organizzata politicamente, nella costruzione di nuovi strumenti politici.
Nai paesi della periferia euromediterranea, l’applicazione dei piani di aggiustamento strutturale scuote l’intera società, tende a far saltare il sistema dei partiti e a mettere in scacco i tradizionali meccanismi della rappresentanza. Di fronte alla violenza degli attacchi, al discredito della socialdemocrazia, e all’urgenza disperata di ottenere soluzioni, a volte il dibattito sulla “alternativa,” sullo “strumento politico” si trasforma direttamente in un dibattito, strategicamente affrettato su come formare una “alternativa di governo” stile latinoamericna, un dibattito che partendo da un bisogno reale corre il rischio di “bruciare le tappe”.
L’aumento della politicizzazione e delle lotte sociali spingono talvolta, in maniera contraddittoria, sia verso un appoggio strumentale alla sinistra tradizionale che verso la formazione di nuove alternative al di fuori dei partiti istituzionali: alla fine potrebbe prevalere il sostegno strumentale all’ esistente o, al contrario, la pulsione verso il nuovo; forse entrambe queste puslioni alla fine si ricombineranno e in questo caso sarà determinante come avverrà e in che misura in ogni paese.
Allo stesso modo sarà fondamentale la forma che assumerà quel “nuovo”, se in esso prevarranno le istanze per una trasformazione radicale del sistema o invece quelle che esprimono una critica più superficiale ed epidermica veso il mondo di oggi.
La dinamica generale favorisce una radicalizzazione sociale alimentata dalla constatazione dell’impossibilità di ottenere cambiamenti concreti e dalla percezione diffusa che il sistema e i “mercati” sono imperturbabili. Questa stessa radicalizzazione esprime allo stesso tempo limiti notevoli, a causa della debolezza della sinistra, della mancanza di riferimenti, del peso delle sconfitte accumulate, della mancanza di aspettative verso un cambiamento sociale, della scarsa chiarezza strategica di molti movimenti e i molti casi da una radicalità espressa più nella forma delle lotte e nella loro dinamica che non nei programmi veri e propri.
La sfida di fondo di questo periodo riguarda la possibilità che questa coscienza antisistemica diffusa acquisti una maggiore consistenza programmatica e strategica (provando a definire cosa significhi essere “anticapitalista”, cosa sia una “rivoluzione”, come si cambi il mondo …).
Nella periferia europea la realtà della sinistra è differente paese per paese. In Grecia e Portogallo esistono soggetti grazie ai quali poter fare politica rivolgendosi ad un pubblico di massa; nel primo caso si tratta di costruire Syriza, rafforzare la sua ala sinistra e cercare di costruire ponti tra questa e Antarsia, e lavorare perché il grosso del progetto mantenga una posizione di rottura con le politiche di austerità e di non compromesso con la Ttroika.
In Portogallo si tratta si continuare a sviluppare il Bloco de Esquerda, le cui prospettive elettorali sono di nuovo in aumento e che appare come la formazione più legata ai nuovi movimenti di resistenza, in un contesto di sfiducia nei confronti dei partiti e della rappresentanza politico-elettorale, una realtà che sottopone il Bloco ad una costante tensione strutturale e ad una pressione da parte del “nuovo” ed “emergente”.
Nello Stato spagnolo e in Italia la questione che si pone è diversa: la necessità di ricostruire la sinistra e uno strumento politico di lotta e di difesa che abbia un impatto di massa, una credibilità sociale ed elettorale. Le formazioni anticapitaliste come Izquierda Anticapitalista o Sinistra Critica, per quando mantengano una certa incidenza sociale e credibilità come soggetti militanti, non costituiscono in sé un riferimento politico.
Organizzazioni riformiste come Izquierda Unida nel caso spagnolo dispongono di una credibilità elettorale e non è da escludere che se questa riuscisse a superare con successo la tensione interna tra il suo discorso generale di opposizione alla crisi e la sua partecipazione alle stesse politiche di austerità del governo andaluso, potrebbe affermarsi come principale punto di riferimento elettorale. Ma allo stesso tempo non potrà costituire da sola una “alternativa” né potrà trasformare i successi elettorali in una militanza organica a causa della mancanza di credibilità politica (qualcosa di diverso da quella elettorale), di un effettivo radicamento sociale e per il suo apparire come parte del “vecchio” e della tradizionale scena politica. In ogni caso la questione della nascita di nuovi soggetti politici è in campo.
La questione principale sul tavolo è come ricostruire la sinistra in una società scossa da un enorme processo di trasformazione sociale che destabilizza tutte le aree. Mentre i piani di aggiustamento strutturale modificano profondamente la società e colpiscono tutte le strutture politiche e sociali, la necessità di costruire nuovi strumenti politici diventa sempre più evidente.
Partendo dal rifiuto delle politiche di austerità si tratta di lavorare affinché, come abbiamo osservato in precedenza, i nuovi strumenti politici che nasceranno abbiano un orientamento programmatico e strategico e una pratica quotidiana il più possibile di rottura e un progetto di trasformazione sociale più avanzato e sviluppato possibile.
Le forme che assumeranno questi nuovi progetti politici è imprevedibile e sicuramente assumeranno contorni confusi con forti contraddizioni e limiti programmatici e strategici. Si combineranno una varietà di dinamiche nazionali, in funzione delle differenti tradizioni politiche, del peso relativo delle diverse correnti di sinistra e della configurazione della sinistra sociale e sindacale.
Aggiustando la tattica ai diversi contesti e al ruolo rispettivi che giocano in ogni paese, le correnti anticapitaliste devono partecipare attivamente ai tentativi ed esperimenti di costruzione di nuovi strumenti politici ampi e utili in quei paesi nei quali questo compito è in cammino (la maggior parte!) e avere allo stesso tempo un proprio autonomo progetto ambizioso di costruzione e sviluppo.
(1) Nota del traduttore: l’esperienza di Agorà99 prima, di Firenze 10+10 poi e della giornata europea del 14 ottobre, non modificano stabilmente questo quadro, ma rappresentano interessanti esperienze: da una prte per la crescia e il consolidamento di reti tematiche capaci proprio di superare la carenza di piattaforme comuni; dall’altra l’impatto simbolico di mobilitazioni in gran parte dell’Europa, che alludono alla necessità e all’utilità di uno sciopero europeo vero.