Scarica il volantino di Sinistra Critica contro l’accordo
Con il “Patto sulla produttività”, firmato a Palazzo Chigi nella nottata tra il 21 e il 22 novembre da tutte le associazioni padronali (Abi, Ania, Confindustria, Lega Cooperative, Rete imprese Italia) e da Cisl, Uil e Ugl, si perfeziona il lungo percorso di smantellamento del valore e della funzione dei contratti nazionali di lavoro.
Si tratta di un percorso nei fatti avviato già venti anni fa con le prime intese concertative del 1992-93, che, con il pretesto di “tenere sotto controllo l’inflazione”, cominciavano a privare il contratto nazionale di lavoro di ogni potenzialità migliorativa delle condizioni e delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti. Sterilizzando la scala mobile e ponendo sugli aumenti contrattuali il limite del solo recupero dell’ “inflazione programmata”, quegli accordi condannavano i contratti, nella migliore delle ipotesi, alla semplice salvaguardia del potere d’acquisto e mettevano la parola fine alla grande stagione “acquisitiva” dei contratti degli anni 70 e 80. Nei fatti quel limite alla pura inflazione prevista dalle leggi finanziarie provocò un lungo periodo di strangolamento della dinamica salariale e uno straordinario spostamento di ricchezza dai salari ai profitti che venne poi quantificato in almeno 10 punti percentuali del PIL.
Parallelamente, con la eccezionale diffusione del lavoro precario, sostenuta e incoraggiata da numerose e successive innovazioni normative (dal “pacchetto Treu” 196/1997, alla “legge Biagi-Maroni” 276/2003), un numero crescente di lavoratori e di lavoratrici (in particolare giovani ma non solo) non saranno più tutelate/i dalle norme e dai minimi contrattuali nazionali. E anche la crescente manodopera migrante è stata spesso immessa nel mondo del lavoro con assunzioni precarie e, ancor più spesso, al nero.
Ciò ha comportato il progressivo disinteresse di settori crescenti del mondo del lavoro attorno alla difesa del valore e della centralità che in precedenza ai contratti nazionali assegnava la stragrande maggioranza della classe lavoratrice italiana.
Ma questo valore solidaristico dei contratti nazionali, che consentiva una tendenziale uguaglianza tra i lavoratori delle zone e dei settori più ricchi e quelli delle regioni economicamente più arretrate, sopravviveva, nonostante venti anni di accordi concertativi e di prevalere del “pensiero unico” capitalistico.
Alla fine del 2008, all’ombra del nuovo governo Berlusconi e dell’attivismo filopadronale del suo “ministro del lavoro” Sacconi, riprende l’offensiva contro il vincolo dei contratti nazionali, che, secondo i suoi detrattori, avrebbe penalizzato la contrattazione di secondo livello, quella aziendale e territoriale. Questa offensiva trova una sua prima concretizzazione nell’accordo quadro di riforma degli assetti contrattuali del 22 gennaio 2009, anch’esso firmato dai padroni, da Cisl, Uil e Ugl e dal governo.
Con quell’accordo, respinto dalla Cgil soprattutto grazie alla vigorosa opposizione della Fiom allora diretta da Rinaldini e da Cremaschi, si puntava a dare un forte impulso alla contrattazione aziendale detassandone (con una “cedolare secca” del solo 10%) tutti gli aumenti e limitando ancora di più gli aumenti dei contratti nazionali a copertura dell’inflazione.
Sulla base di quell’accordo, successivamente, e nonostante il formale rifiuto della Cgil ad avallarlo, venivano sottoscritti numerosi e deteriori contratti di categoria, salvo quelli dei dipendenti pubblici e quello dei metalmeccanici, settore in cui la Fiom ha resistito a tutt’oggi, obbligando i padroni di Federmeccanica a stipulare solo accordi separati con Fim Cisl.
Successivamente, l’obiettivo per i padroni è diventata la facoltà di trasgredire senza conseguenze alle norme contrattuali, la possibilità, dunque, di stipulare “accordi in deroga” alle norme pattuite nazionalmente.
Questa possibilità è stata sperimentata per la prima volta e in modo decisamente “innovativo” alla Fiat di Sergio Marchionne, con i contratti imposti in successione ai lavoratori di Pomigliano, di Mirafiori e della Bertone e, poi, estesi, attraverso il nuovo contratto dell’auto, a tutti i 90.000 dipendenti dei vari stabilimenti del gruppo torinese.
La ricerca delle deroghe, dunque, in prospettiva di una gestione salariale e normativa della manodopera in totale balia dell’arbitrio padronale, è rapidamente diventata la nuova ossessione di padroni e padroncini italiani, in preda alla crisi e attizzati dal sostegno corale dei media, delle istituzioni e della politica al “metodo Marchionne”.
Se ne faceva interprete il solito ministro Sacconi, che, incoraggiato anche dalla famosa lettera di Trichet e Draghi della BCE del 5 agosto 2011, faceva approvare una norma (il famoso articolo 8 della legge 142/2011) che legittimava tutte le deroghe agli accordi e, in sovrappiù anche alle leggi. In poche parole, con un accordo (anche con sindacati minoritari e, magari, di comodo) si possono vanificare tutti i contratti precedenti e perfino le leggi dello stato in materia di gestione della manodopera.
Ma, ancora una volta, il padronato non si mostrava soddisfatto. Infatti, il sistema contrattuale risultante continuava a sembrargli tuttora fonte di troppi vincoli che gli avrebbero impedito un pieno supersfruttamento dei lavoratori.
Ecco, dunque, l’accordo sulla produttività sottoscritto in questi giorni che definitivamente trasforma il contratto nazionale di lavoro in una sorta di “contratto cornice” in cui non esiste più alcuna certezza: salari, orari, mansioni possono essere variati a piacimento dal padrone, attraverso deroghe concordate con i sindacati complici. Si potrà guadagnare qualche cosa di più lavorando molto di più: in compenso una detassazione del “premio di supersfruttamento”, garantita dallo stanziamento da parte del governo di 2,1 miliardi di euro.
Dunque, un governo che non trova né vuole trovare i fondi per finanziare la cassa integrazione “in deroga” che ha finora consentito un reddito, seppure da fame, a centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici messi fuori dal processo produttivo dalla crisi e dall’attacco padronale, stanzia oltre 2 miliardi di euro per finanziare le deroghe padronali ai salari, agli orari, agli inquadramenti e ai diritti di tutte e di tutti.
Il supersfruttamento degli occupati, ricattati dall’esistenza di un ampio “esercito industriale di riserva” fatto di una marea crescente di disoccupati, aumenterà, probabilmente sì, la “produttività, mettendo fuori gioco altri lavoratori, che diventeranno “esuberi”, licenziandi, futuri disoccupati, che incrementeranno quell’esercito e il potere ricattatorio dei padroni. Si punta a realizzare quel sogno dei padroni, antitetico al nostro: per loro si tratta di far lavorare più a lungo e più intensamente per poter far lavorare un numero minore di operai, al contrario di quanto noi abbiamo sempre rivendicato: “lavorare meno per lavorare tutte/i”.
E, già che ci si trovavano, organizzazioni padronali e sindacati complici hanno anche dato via libera ad altre aspirazioni padronali: quella di misure che consentano loro di liberarsi progressivamente e in maniera indolore dei lavoratori anziani, sempre più anziani vista anche la riforma previdenziale Fornero, attraverso incentivi al passaggio al part time nella fase che precede la pensione, e quella di reintrodurre la possibilità per le aziende di utilizzare le “nuove tecnologie” per il controllo a distanza dei lavoratori, esplicitamente vietato dal 1970.
E si ribadiscono, rivendicandone la detassazione, gli obiettivi di un forte sviluppo della “bilateralità”, cioè di uno sviluppo di quel sistema che punta a utilizzare soldi dei lavoratori per sovvenzionare organismi di ricollocazione della pletora dei funzionari sindacali ormai in sovrannumero stante il drastico ridimensionamento dei conflitti e della conflittualità, organismi che d’altronde cercheranno di sviluppare il “welfare contrattuale” nazionale e aziendale, in funzione chiaramente e dichiaratamente sostitutiva di quello universale in via di smantellamento.
Infine, l’accordo ribadisce a favore dei padroni le garanzie sulla “esigibilità” degli accordi e sulle sanzioni per i sindacati recalcitranti già previste dall’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, quello peraltro sottoscritto anche dalla Cgil.
La Cgil non ha sottoscritto l’accordo pur avendo lavorato fino all’ultimo per renderlo “firmabile”. Ma la determinazione padronale (e degli altri sindacati) da un lato e le sue contraddizioni interne, dall’altro, non glielo hanno consentito.
Ancora una volta il gruppo dirigente centrale della confederazione di Corso d’Italia torna a casa con un pugno di mosche. Cacciata dagli stabilimenti Fiat, in via di essere cacciata da tutti gli altri stabilimenti metalmeccanici attraverso la prossima intesa contrattuale separata che potrebbe essere firmata nei prossimi giorni (forse il 30 novembre), il nuovo accordo confederale separato rischia di sospingerla sempre più nella “irrilevanza”. Non firma accordi (salvo quello di giugno 2011, non a caso rivendicato a gran voce a proposito e a sproposito), non incassa risultati per i lavoratori e non vuole né riesce a creare conflitto, a cambiare linea, prendendo atto della situazione politica e sociale.
Il suo unico risultato negli ultimi tempi è quello di aver dato un contributo, forse determinante, al (relativo) successo di Pierluigi Bersani nel primo turno delle primarie del centrosinistra, successo certamente senza alcun profitto per i lavoratori.
Che cosa accadrà nei prossimi tempi a questa confederazione? Dal nuovo accordo separato, quali lezioni verranno tratte? Le categorie che nei prossimi mesi saranno chiamate a sottoscrivere contratti nazionali come si comporteranno nei confronti dell’accordo quadro che tutte le altre organizzazioni vorranno richiamare e applicare?
Sono questi gli interrogativi che la nuova intesa suscita e a cui il gruppo dirigente della Cgil sembra proprio non voler rispondere.
Andrea Martini