Di Antonio Moscato.
Nota: Questa è la stesura definitiva – sulla base dei miei appunti e della registrazione audio – di una comunicazione fatta nel seminario di Sinistra Critica tenutosi a Roma il 12 e 13 gennaio. Una parte degli argomenti non erano stati sviluppati in quella sede per i limiti di tempo. Sul mio sito, tra i testi utili, segnalo anche Controllo operaio di Ernest Mandel. (a.m.17/1/13)
Il termine nazionalizzazione è un tabù nella sinistra ammalata di “realismo”, che da anni bolla come “ideologismo” ogni proposta in tal senso. Tuttavia recentemente ci sono stati timidi tentativi di riprendere questa tematica, da alcuni per spudorata demagogia o come gesto simbolico (perfino Crosetto, Clini ecc. a proposito dell’ILVA-Italsider). In questo senso lo ha fatto brevemente anche Landini, ma evocandola solo come eventualità, per giunta temporanea…
Non credo che tanta reticenza dipenda dallo spauracchio dell’ideologia rivoluzionaria, o magari dal timore di essere sospettati di “leninismo”. Infatti, a parte pochissimi, che magari citano Lenin, ma così dogmaticamente da apparire poco convincenti ed anzi respingenti, ben pochi sanno che le nazionalizzazioni e il controllo operaio erano tra le parole d’ordine che hanno preparato e contribuito al successo della rivoluzione d’Ottobre.
In realtà Lenin quando nella tarda estate del 1917 proponeva nazionalizzazioni non lo faceva per motivi astrattamente ideologici, come gli si rimprovera sempre, ma partiva dall’osservazione dei meccanismi di controllo imposti dalle necessità della guerra a tutti gli Stati capitalisti, e dalla necessità di impossessarsene per assicurare ai lavoratori una soluzione concreta ai loro drammatici problemi, destinati altrimenti ad aggravarsi, e a diventare appunto una “catastrofe”. [Lo scritto più sistematico su questi temi è La catastrofe imminente e come lottare contro di essa, che è pubblicato nel vol. XXV delle Opere di Lenin, Editori Riuniti, Roma, 1967, ma è anche sul mio sito, presentato da un breve articolo I consigli di Lenin e in forma integrale come Lenin e la crisi].
Lenin partiva dalla constatazione che “tutti gli Stati belligeranti, schiacciati dal peso enorme e dalle calamità della guerra, soffrendo in maggiore o in minore misura dello sfacelo e della carestia, hanno già da lungo tempo stabilito, definito, applicato e messo alla prova una serie di provvedimenti per effettuare il controllo”, basati su raggruppamenti di produttori posti sotto il controllo dello Stato. (Ivi, p.312)
Lenin polemizzava con i partiti operai che partecipavano al governo provvisorio russo per l’incapacità di utilizzare quegli strumenti, perché paralizzati dal “loro servilismo verso i capitalisti”. Se non si fossero “condannati a una «inerzia totale», lo Stato non avrebbe che da attingere a piene mani nell’abbondante riserva dei provvedimenti di controllo già noti, già applicati”.
Il solo ostacolo che vi si frappone – ostacolo che i cadetti, i socialisti-rivoluzionari e i menscevici celano agli occhi del popolo – è, e continua ad essere, il fatto che il controllo rivelerebbe i favolosi profitti dei capitalisti e colpirebbe questi profitti”. (Ibidem)
È evidente che la parola chiave è il controllo, non la proprietà. Lenin ritiene che questa sia “la questione essenziale del programma di ogni governo veramente rivoluzionario che voglia salvare la Russia dalla guerra e dalla carestia”.
Vedremo che per un governo che si chiamasse democratico rivoluzionario non solo per scherzo sarebbe stato sufficiente, fin dalla prima settimana della sua formazione, decretare (decidere, ordinare) l’applicazione dei principali provvedimenti di controllo, stabilire sanzioni serie – e non risibili – contro i capitalisti che avessere tentato di sottrarvisi in modo fraudolento, e invitare la popolazione stessa a sorvegliare i capitalisti, a vigilare affinché essi rispettassero scrupolosamente le decisioni sul controllo, e il controllo statale sarebbe stato da lungo tempo applicato in Russia. (Ibidem)
Al primo posto delle misure proposte, Lenin poneva “la fusione di tutte le banche in una sola banca” premessa di un effettivo controllo delle sue operazioni da parte dello Stato. E di questo processo, che chiama poi direttamente “nazionalizzazione delle banche”, parla in molte pagine successive, discutendo anche dei modi in cui potrebbe essere realizzata (assemblee dei lavoratori, compresi i direttori, di tutte le banche, estromettendo i rappresentanti della proprietà e quei direttori stessi troppo legati ad essa). Una misura, precisa Lenin, che non sfiorerebbe neppure i piccoli risparmiatori, che rimarrebbero proprietari di quanto avevano sul loro libretto. Ma indispensabile, scriveva, dato che “le banche e i rami più importanti dell’industria e del commercio si sono indissolubilmente fusi”. (Ivi, p. 319)
Non proseguo nella parafrasi di questo testo illuminante e poco conosciuto, straordinario come esempio di concretezza nella definizione di un programma di lotta non estremistico, ma coerentemente rivoluzionario, perché i compagni possono scaricarlo e stamparselo, cominciando magari a leggere la parte che ho utilizzato di più per la relazione. (da p. 312 a 325) Particolarmente utile la sottolineatura di misure concatenate tra loro, come la nazionalizzazione dei “sindacati capitalistici”, cioè dei trust che rendono nulla la libera concorrenza, l’abolizione del segreto commerciale e bancario, ecc., senza le quali ogni misura parziale sarebbe aggirabile.
Insisto: propongo solo un esempio di metodo. Senza usare Lenin come la Bibbia o il catechismo (cosa che non ho mai fatto neppure quando avevo 17 anni), ma capendo che un programma deve guardare al futuro e non limitarsi a registrare quel che è già possibile e accettabile dal senso comune. Vorrei ricordare a questo proposito che questo testo è stato preparato nelle stesse settimane in cui Lenin scriveva Stato e rivoluzione, ed era di nuovo in esilio forzato e clandestino in Finlandia, mentre i principali dirigenti bolscevichi erano stati incarcerati dal governo provvisorio e apparivano minoritari e destinati alla sconfitta…
Spero che nessuno mi ricordi che in Italia non abbiamo un governo provvisorio guidato da un Kerensky, e c’è in questo momento una impressionante passività delle masse, pur sottoposte ad attacchi senza precedenti negli ultimi decenni. E neppure che mi si obietti che quel programma non è stato attuato che per breve tempo: ben presto la controffensiva internazionale dell’imperialismo alimentò la guerra civile, che obbligò il fragile potere sovietico a ricorrere – per sopravvivere – a disperate misure di emergenza, ricordate come il “comunismo di guerra”. Ma questa è un’altra cosa, di cui tra l’altro mi sono occupato non poco, seguendo le orme dei miei maestri, Livio Maitan ed Ernest Mandel. Quello che mi pareva essenziale era spiegare che una rivoluzione proletaria, ove ci siano le condizioni oggettive e un soggetto in grado di proporre soluzioni, è facilitata dalla concentrazione capitalistica e dagli stessi trust.
E quindi posso passare a quello che è importante ricordare ai residuati della sinistra, che non osano formulare un programma chiaro per non spaventare i bempensanti, e che hanno paura perfino di usare la parola “nazionalizzazioni”.
Molte nazionalizzazioni in Italia sono state fatte per iniziativa di governi borghesi: da quella delle ferrovie, nel decennio che precede la Prima Guerra Mondiale, all’esperienza dell’IRI, creato nel 1933 per rispondere alle ripercussioni della grande depressione del 1929, ma non esclusivamente finalizzato al salvataggio di imprese in crisi, per riprivatizzarle subito dopo. “Statizzare le perdite, privatizzare i profitti”, è uno slogan efficace, e spiega una parte delle funzioni dell’IRI, ma non tutte. Alcuni settori, come la siderurgia, hanno visto massicci investimenti statali con un’altra logica: garantire ai capitalisti privati acciaio a buon mercato, grazie a impianti moderni e costosissimi che nessun singolo capitalista avrebbe potuto costruire in breve tempo. Soprattutto si doveva evitare che il profitto di un singolo capitalista ostacolasse o rallentasse la crescita delle industrie interessate.
C’erano stati altri esempi, a partire dall’Agip–ENI, che doveva assicurare analogamente combustibile a condizioni di favore all’industria. È stata privatizzata negli anni Novanta, nel quadro della grande orgia di privatizzazioni, dettate queste sì da furore ideologico, e realizzate dalla sedicente “sinistra” non meno che dalla destra. L’ENI, come la consorella brasiliana Petrobras, è diventata una vera multinazionale che si sposta a far danni in tutto il mondo.
Importante da ricordare soprattutto il caso della nazionalizzazione delle imprese elettriche, realizzata nel 1962. La destra gridava che era un colpo di Stato comunista, ma in realtà l’iniziativa era stata presa dal primo tiepido e cauto centro-sinistra, e lo scopo era quello di fornire energia elettrica sottocosto alla grande e media industria privata (facendo casomai pagare di più le utenze familiari o artigianali); al tempo stesso, dato che c’era un indennizzo (che risulterà alla fine più che lauto), le compagnie elettriche “espropriate”, disponendo di un’enorme liquidità, poterono spostarsi in un altro settore decisivo e in crescita come la chimica realizzandovi grandi concentrazioni. L’ENEL è stata privatizzata nel 1999, passando subito dopo ai bilanci in rosso
La difficoltà maggiore a riproporre la nazionalizzazione di un’impresa in nome della pubblica utilità (come nel caso dell’ILVA) dipende dal fatto che il maggior numero di privatizzazioni sono state fatte dai governi di centrosinistra e in particolare da Prodi, che nella sua veste di presidente dell’IRI aveva già smantellato quella che era allora la più grande azienda al di fuori degli Stati Uniti. Dico smantellato, perché fu venduta a pezzi, senza nessuna garanzia, e spesso letteralmente svenduta (Cirio, Alfa Romeo, ecc.). Ma si deve invece fare un bilancio. Negli stessi anni Novanta furono privatizzate anche le principali banche, lasciate così libere di fare investimenti a volte in attività scandalose, ma spesso anche imprudenti e fallimentari. Tanto lo Stato e la BCE provvedono al salvataggio… Ecco una delle cause del folle indebitamento dell’Italia.
Naturalmente non voglio scaricare sul solo Prodi tutte le responsabilità: Berlusconi di privatizzazioni ne ha fatte un po’ meno, ma solo perché il grosso del lavoro era stato fatto. E Prodi era in buona compagnia: Mario Draghi collaborò ampiamente, non solo per la sua esperienza di vicepresidente per l’Europa della Goldman Sachs, ma anche come presidente del comitato per le privatizzazioni dal 1993. Grazie a lui la Goldman Sachs acquisì ad esempio nel 2000 l’ingente patrimonio immobiliare dell’Eni di San Donato Milanese, oltre agli immobili di numerose altre fondazioni bancarie.
Preliminare a ogni uso della parola d’ordine della nazionalizzazione (o pubblicizzazione, o restituzione allo Stato di quello di cui grazie ai favori politici si sono appropriati capitalisti famelici…) è una forte campagna sul bilancio catastrofico delle privatizzazioni, in Italia e nel mondo (ad esempio con le ferrovie in Gran Bretagna, in Russia, ecc.). Quelle privatizzazioni erano il frutto di un’orgia ideologica, non la nostra proposta oggi.
Tanto più che lo Stato anche più liberista interviene sempre con i salvataggi, e non delle sole banche. Fin dai suoi albori: lo Stato postunitario già nel 1881 finanziò la concentrazione della Rubettino e della Florio (divennero Navigazione Generale Italiana), ma le due compagnie erano già strafinanziate (perfino i due piroscafi prestati a Garibaldi, erano stati pagati da Cavour, e il governo aveva dato sottobanco i talleri di Maria Teresa per il dubbio acquisto di Assab da parte della Rubettino nel 1869). In quegli anni intervenne lo Stato anche per assicurare la costruzione della Terni, indispensabile per la costruzione di corazzate in acciaio nel quadro di un ancora confuso programma imperialista. Anche le ferrovie, pur essendo private, ottennero nei primi decenni postunitari poderosi finanziamenti.
Vogliamo calcolare poi quanto ha avuto la FIAT fin dagli anni precedenti le due guerre mondiali? È essenziale per considerare come una restituzione la nazionalizzazione senza indennizzo per impedire la chiusura di uno stabilimento. L’indennizzo lo hanno già avuto prima…
E l’ILVA, quanto ha pagato per quel gioiello che era il Quinto Centro Siderurgico Italisider di Taranto, e quanto ha imboscato poi di profitti realizzati nascondendo i prodotti tossici sotto il tappeto delle complicità di Stato ed enti locali?
Solo facendo questo audit o se si vuole smascheramento, non impossibile, può essere capita la nostra proposta, che non è di un ritorno alla vecchia gestione dei boiardi di Stato (che era tutt’altro che esemplare o efficiente, e meritevole di nostalgia, come è apparsa a Viale, in un articolo ripreso da Bertorello), ma di una confisca per esigenze pubbliche, unico modo per sfuggire al dilemma azienda-magistratura, salute o lavoro… Lasciamo da parte la tematica della riconversione, che mi sembra del tutto impraticabile. L’acciaio è acciaio, non si può sostituire con le mozzarelle…
I problemi di risanamento e di gestione di un mostro simile sono enormi, e non solo tecnici. L’unica certezza è che questo compito non può essere affidato al padrone rapace e corruttore, né allo Stato, che ha sempre chiuso gli occhi di fronte al problema. L’idea di poterlo affidare al piccolo Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti mi sembra però piuttosto ingenua. Questo comitato può essere l’embrione di una struttura di lotta contro Riva e lo Stato suo complice, ma mi sembra assai lontano dal poter assumere la direzione del processo di recupero.
I compiti della rimessa in funzione di fabbriche gigantesche e in cui ciascun operaio, a differenza di quanto avveniva nella FIAT del 1920, conosce solo una minima parte del processo produttivo, sono complessi e difficili.
Parto da un esempio concreto. Ho seguito da vicino negli anni Settanta un’esperienza interessantissima di un reparto del più antico stabilimento Alfa Romeo, quello di Portello. In occasione di una delle tante manifestazioni sindacali inconcludenti, con due o tre giornate di simil occupazione denominata Assemblea aperta o qualcosa del genere, in cui tutte le forze politiche potevano dire la loro a una platea operaia abbastanza annoiata (anch’io fui invitato a parlare…), un gruppo di operai del reparto Montaggio Motori decisero di non perdere tempo con quelle che apparivano, e in gran parte erano, solo chiacchiere, e decisero di provare a far funzionare da soli il reparto. Il primo giorno si trovarono di fronte a difficoltà che sembravano insormontabili: non riuscivano neppure a localizzare tutti gli interruttori e i quadri di comando, non ci avevano mai pensato, perché erano i capi e i tecnici che predisponevano tutto. Poi, risolti questi primi problemi, avevano cominciato a organizzare la produzione, e alla fine riuscirono a produrre una ventina di motori, meno di quanti ne producevano abitualmente (anche perché non volevano spremersi), ma sempre sufficienti per dimostrare che erano in grado di fare a meno dei capi.
L’iniziativa era merito di un bravo operaio, Guido del Pero, che non sapeva molto di Gramsci e dell’esperienza dell’occupazione delle fabbriche del primo dopoguerra, ma aveva un solido istinto di classe. Ma l’esperienza del reparto Montaggio Motori non si generalizzò neppure nell’Alfa, rimase un caso isolatissimo. L’ho ricordata per sottolineare l’enorme difficoltà dei compiti della riorganizzazione di uno stabilimento come l’ILVA-Italsider, esteso su un’area vastissima, con migliaia di operai che neppure si conoscono, e che fino a pochissimo tempo fa erano organizzati anche sindacalmente direttamente dagli uomini del padrone.
Se non si vuole solo sostituire un padrone con dei manager espressione di altri settori del padronato, non basta porre il problema del cambio di proprietà, ma bisogna che il controllo sia possibile grazie al coinvolgimento di impiegati, tecnici, una parte dei quadri, in un grande processo di politicizzazione, non circoscritto a una fabbrica sola. Un compito che ci poniamo solo noi, in questa fase.
Riproporre le tematiche di quello scritto di Lenin, come proponevo all’inizio della relazione, non significa illudersi sulla loro possibile realizzazione in questo contesto, ma serve a rilanciare e a ricollegare a esperienze precedenti il compito di indagine, (l’audit), che vuole “smascherare”, “svelare” l’appropriazione capitalista del lavoro.
A cui si lega strettamente un’altra parola d’ordine attualissima: il controllo dal basso contro l’evasione, che si lega alla rivendicazione dell’eliminazione del segreto sui veri bilanci aziendali, possibile tecnicamente (sono lavoratori quelli che materialmente gestiscono anche i monopoli) solo nel quadro di una massiccia campagna per salvarsi da una catastrofe imminente… Ma di questo aspetto parleremo successivamente, affrontando i problemi specifici della lotta all’evasione, che non può essere ovviamente delegata alla Guardia di finanza (oggi peraltro specializzata soprattutto nella concorrenza ai corpi speciali di picchiatori di polizia e carabinieri), o al risibile spauracchio del cosiddetto “redditometro”.
Su tutti questi terreni c’è un ritardo enorme: una dopo l’altra intere fabbriche vengono smantellate, spostando le macchine oltre confine, senza una reazione adeguata. I compagni hanno accennato all’OMSA, alla Maflow, in ogni provincia ci sono decine o centinaia di casi. Io ad esempio ho seguito un anno fa il caso della BEST di Montefano, in provincia di Macerata, di proprietà di un gruppo statunitense, Nortek: durante il ponte dei primi di novembre del 2011 gli operai erano stati messi in ferie (obbligate e non richieste), per poter effettuare con calma lo svuotamento della fabbrica con operai portati da una filiale polacca per riempire rapidamente i Tir con macchinari e prodotti finiti. Il presidio esterno (ormai quasi inutile, perfino alla pubblicizzazione del caso, dato che lo stabilimento svuotato si trovava in campagna su una strada poco trafficata) si è protratto per mesi, nel gelo, stemperato malamente da qualche stufetta sotto i gazebo. Ma la proposta di entrare nello stabilimento vuoto per scaldarsi meglio, è stato respinta con sdegno: “i padroni hanno rubato le macchine, noi però non possiamo rispondere con una illegalità occupando la fabbrica, che non è nostra”… Penoso epilogo: mentre gli operai gelavano e restavano a vedere la passerella di assessori e consiglieri regionali, provinciali e comunali che venivano a esprimere a parole la loro solidarietà, si era tentata la saldatura con un altro stabilimento BEST, a Cerreto d’Esi, nella limitrofa provincia di Ancona, senza ottenere più che uno sciopero simbolico e una sottoscrizione. Oggi la stessa multinazionale Nortek, ha annunciato che chiuderà anche questo stabilimento. Indisturbata, come sempre. E a proposito di controllo, come mai ti rompono le scatole aprendoti il bagagliaio dell’auto alla frontiera, ma non si domandano perché e a che titolo una serie di TIR carichi di macchinari viaggiavano verso la Polonia?
Questo dà l’idea dell’enorme ritardo nella coscienza di classe e impone dei compiti di elementare alfabetizzazione su questo terreno. Difficile, perché spesso manca la coscienza di classe perfino nel rapporto col singolo padrone, figuriamoci nei confronti dell’intero sistema capitalistico e dello Stato borghese. Ha pesato l’involuzione non solo dei partiti che un tempo erano parte del “movimento operaio” , ma dello stesso movimento sindacale (compresa parte non trascurabile della FIOM). Occorre una campagna incessante, martellante, quotidiana, contro il mito della neutralità dell’apparato statale. Uno scrittore, commentando una serie di fatti di cronaca ha detto paradossalmente che un tempo un operaio licenziato a volte sparava al padrone, oggi spara ai figli e alla moglie prima di uccidersi. E quando una fabbrica viene smantellata, ci si aggrappa a parlamentari e amministratori locali per ottenere qualche ammortizzatore sociale, invece di chiedere il loro aiuto per ricostruire quanto i padroni in fuga hanno ricevuto per anni dallo Stato, per pretenderne la restituzione.
Un ultima considerzione: queste riflessioni servono ad armare i militanti più giovani, gli operai che si avvicinano a noi, a discutere con la piccola parte di sinistra che rimane e che abbiamo reincontrato nelle prime assemblee di “Cambiare si può”, ma ovviamente non possono essere calate direttamente e bruscamente in un volantino di massa. È evidente che non sarebbe facile accoglierle. Ma non è una buona ragione per non cominciare a parlarne, altrimenti sarà sempre più impossibile intervenire, e ci si rassegnerà ad accettare passivamente che l’ideologia delle masse sfruttate sia l’ideologia della classe dominante. (a.m.)