Prime riflessioni sul voto in Ecuador

Dopo il breve e tempestivo articolo di Antonio Moscato sulla vittoria elettorale di Rafael Correa nelle elezioni equadoriane di domenica 17, pubblichiamo una più attenta e estesa riflessione dello stesso autore.

di Antonio Moscato (da antoniomoscato.altervista.org)

EcuadorIn attesa dei commenti e delle analisi dei compagni ecuadoriani di “R”, e soprattutto dei dati definitivi e articolati per province, è possibile già tentare una prima valutazione del voto.

Rafael Correa ha schiacciato l’opposizione di destra, come d’altra parte nell’intervista a Franck Gaudichaud (Ecuador. Entrevista a Alberto Acosta) aveva auspicato lo stesso Acosta, candidato alla presidenza per la lista di Unidad Plurinacional de las Izquierdas. Questa coalizione, che raggruppa una decina di organizzazioni che vanno dal centrosinistra alla sinistra radicale, tra cui spiccano Pachakutik (braccio politico della Confederación de Nacionalidades Indígenas de Ecuador, CONAIE) e il Movimiento Popular Democrático, di origine maoista e forte nel sindacato degli insegnanti, ha avuto però un risultato inferiore alle previsioni, che a questo momento (in cui lo scrutinio si basa ancora su poco più di un 70% delle schede) sembra di poco superiore al 3%. È l’effetto della grande forza di attrazione della candidatura di Correa, che ha superato il 56% ed è risultato nettamente primo in 22 delle 24 province del paese.

Correa aveva perso negli ultimi due anni il sostegno di parte dei suoi più prestigiosi sostenitori iniziali, per le sue tendenze autoritarie, la drammatizzazione di ogni azione rivendicativa presentata come potenzialmente “golpista”, l’arresto di giovani accusati di “terrorismo” in un paese che non conosce nessuna rivolta armata da decenni, ma ha consolidato la sua popolarità tra gli strati popolari, che gli sono grati per le misure sociali che hanno ridotto la povertà pur senza intaccare le ricchezze dei grandi proprietari terrieri e delle multinazionali, che si sono accresciute. Ha anche migliorato relativamente lo stato della salute pubblica e dell’istruzione.

Le misure più controverse, come il corridoio terrestre da Manaus in Brasile al porto di Manta sul Pacifico, che devasterebbe ampie zone di foresta amazzonica, si sono scontrate con ambienti ecologisti e indigeni ma hanno trovato alcune comunità che hanno considerato accettabile il danno ambientale, sia perché attratte da elargizioni di vantaggi contingenti da parte dei funzionari governativi, sia per l’illusione che l’opera possa portare un futuro sviluppo dell’area.

Il pericolo maggiore del successo di Correa, rimasto senza un contrappeso significativo, è però legato alle sue sempre più aperte tendenze autoritarie, e al suo fastidio per la costituzione che lui stesso aveva voluto nel primo periodo di governo, e che ora considera troppo “garantista”. Pericoloso non solo perché può portare, come in Venezuela, a un preoccupante braccio di ferro con i grandi giornali borghesi e con i grandi canali televisivi, ma perché può incoraggiarle il presidente a ritentare l’attacco alle principali associazioni ecologiste del paese, che aveva già provato in passato a dichiarare illegali considerandole strumenti di interessi esterni perché contestavano la sua politica estrattivista.

La costituzione dell’Ecuador infatti è avanzatissima nel riconoscimento astratto dei diritti della madre terra, la Pachamama, ma la pratica governativa e quella dei manager dell’azienda petrolifera di Stato calpestano spesso quei diritti, per assicurare il massimo sviluppo dell’industria estrattiva anche a danno dell’ambiente e delle comunità indigene.

Qualcosa di simile a quanto accade in Bolivia, e – sia pure senza tanta retorica sulla Pachamama – in Venezuela e soprattutto in Brasile. L’esiguità dei risultati elettorali di chi si oppone da sinistra a queste politiche, non deve trarre in inganno chi si ostina a scambiare i propri desideri con la realtà: non si tratta di socialismo, sia pure “del XXI secolo”, ma di un progetto di sviluppo e rafforzamento di un capitalismo nazionale, come era stato ammesso più esplicitamente dal vicepresidente boliviano Alvaro Garcia Linera.

Ma per giunta, i risultati degli oppositori di sinistra sono al di sotto delle aspettative, ma non insignificanti. Non solo perché il 3,13% (a questo momento) di Acosta va confrontato anche con il 3,64% del ricchissimo magnate delle banane Alvaro Noboa, che era stato lo sfidante a Correa nelle precedenti presidenziali, e va visto nella sua ineguale distribuzione geografica: ad esempio in diverse province Acosta ottiene perfino il 19,87% (Morona Santiago) o il 17,93% (Zamora Chinchipe), e in altre sta a livelli ugualmente rispettabili (Pastaza, 9,32%, Cotopaxi 8,25%, ecc.), cioè ottiene percentuali tali da consentire di consolidare in quell’area una forza in grado di pesare politicamente in futuro. Non è poco, se ci si riuscirà. Alcuni dati come il modesto 6,47% raggiunto dalla lista nella provincia di Esmeraldas, che era una roccaforte maoista, può far pensare che alcuni settori che avevano aderito inizialmente a Unidad Plurinacional de Izquierdas siano stati poi attratti dalle lusinghe del potere centrale. E lo stesso si può pensare per diversi settori della CONAIE. Per giunta un risultato modesto, ma di fatto concorrenziale, è stato raggiunto dall’ex presidente Lucio Gutiérrez (6,53%), che non è di sinistra ma si presenta come tale, e che aveva avuto in passato l’appoggio del Pachakutik. Non basterà avere tutti i dati definitivi provincia per provincia, ma bisognerà esaminare i risultati per cantoni o “parroquias”, per vedere quali e quanti capi locali di comunità indigene sono stati attratti dalle lusinghe del governo.

Che comunque, al di là dei contributi corruttori per accaparrarsi seguaci interessati che aveva distribuito a molti, aveva ripagato i suoi piani sociali, assistenziali, i sussidi e le opere pubbliche, con le tasse sugli esportatori di materie prime. Senza però riuscire a sganciarsi realmente dalla dipendenza dalle grandi multinazionali e dal capitale finanziario internazionale, né a sostituire una borghesia nazionale pressoché inesistente con l’apparato statale. Ed è quindi condannato a continuare a esportare banane, petrolio, minerali grezzi, senza riuscire a recuperare neppure una propria moneta: in Ecuador la moneta nazionale è rimasta il dollaro.

Questo 3% comunque non è disprezzabile. Probabilmente non assicurerà seggi in parlamento, data la nuova geografia dei collegi, ma non impedirà automaticamente la battaglia politica. In questo senso, il risultato non è automaticamente demoralizzante come fu il risultato della lista Arcobaleno in Italia e come potrebbe esserlo quello di “Rivoluzione civile” se il carattere repellente di certe candidature imposte dal vecchio ceto politico peserà di più delle aspettative dei militanti, e impedirà di raggiungere il quorum. Per valutare a pieno il risultato, dunque, bisognerà aspettare a vedere se per la prima volta in Ecuador si consoliderà una piccola forza che incalzerà da sinistra il governo, senza spaventarsi per i rapporti di forza iniziali, che comunque in certe province sono non disprezzabili. È quello che è indispensabile per sospingere Correa a riprendere la strada che aveva inizialmente intrapreso.

Antonio Moscato, 19/2/13

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