da Le Monde. Culture et Idées del 21 febbraio 2013
Professore alla School of Oriental and African Studies (SOAS) di Londra, Gilbert Achcar (nella foto) è uno dei migliori analisti del mondo arabo contemporaneo. Nato nel 1951, ha lasciato il Libano nel 1983. Ha successivamente insegnato all’Università di Parigi-VIII, poi al Centro Marc-Bloch, a Berlino. L’impegno a sinistra e filopalestinese non gli ha mai impedito di usare un giudizio severo sulle dittature nazionaliste arabe [1].
Come qualificare ciò che avviene nel mondo arabo dal 2011?
Ho scelto come titolo per il mio libro la parola neutrale di «sollevamento». Ma, fin dall’introduzione, parlo di processo rivoluzionario di lungo termine. E’ chiaro, fin dall’inizio, che noi eravamo alle prime fasi di un’esplosione. La sola cosa che si può prevedere con certezza è che sarà lunga.
Emmanuel Todd [1] ha dato una spiegazione demografica del fenomeno. Lei propende piuttosto per una spiegazione marxista.
La fase durante la quale il mondo arabo si distingueva per una demografia galoppante è finita da una ventina d’anni. Io sono partito dalla situazione sul campo alla vigilia dell’esplosione, nel 2010. Si può costatare un blocco dello sviluppo in contrasto con il resto del mondo. Perfino nell’Africa subsahariana. La traduzione più spettacolare di questo blocco è un tasso di disoccupazione record, in particolare tra i giovani. Poi c’è una modalità specifica del capitalismo nella regione: tutti gli stati si basano sulla rendita, anche se a gradi diversi. L’altra caratteristica è un patrimonialismo in cui il clan dominante possiede lo stato e lo trasmette in maniera ereditaria.
Le rivoluzioni arabe si sono tradotte in liberalizzazioni politiche ma senza rivolgimenti sociali. Perché?
In Egitto e in Tunisia è stata spezzata solo la punta dell’iceberg, i despoti e il loro entourage immediato. D’altra parte, in questi due paesi, lo «stato profondo» – l’amministrazione, gli apparati di sicurezza – non sono stati toccati. Al momento, solo la rivoluzione libica ha portato a un cambiamento radicale, oggi non c’è più uno stato, non c’è più un esercito. Lo sconvolgimento sociale là è stato più pronunciato, dato che lo spazio privato, già stretto, era dominato dalla famiglia Gheddafi.
Ci si meraviglia in occidente che gli islamisti vincano le elezioni dato che non erano stati loro a avviare quelle rivoluzioni…
Le aspettative dell’occidente, quel romanticismo della «primavera» e del «gelsomino», tutto quel vocabolario orientalista, se fondavano su una cattiva conoscenza della situazione. Era evidente che gli integralisti avrebbero cavato le castagne dal fuoco dato che si sono imposti , dalla fine degli anni 1970, come una forza egemonica nelle proteste popolari. Hanno colmato il vuoto lasciato dal fallimento del nazionalismo arabo. La paura degli integralisti era d’altronde la ragione principale per la quale i governi occidentali sostenevano i dispotismi arabi. Credere che tutto ciò sarebbe stato spazzato via era un po’ come prendere i propri desideri per realtà. Con l’aiuto finanziario dei paesi del Golfo e il sostegno televisivo di Al-Jazira, si potevano solo attendere le vittorie elettorali degli integralisti. Quello che sorprende, semmai, è che queste vittorie non sono state schiaccianti. In Egitto si può vedere la velocità alla quale il voto integralista si sgretola, dalle elezioni per il parlamento al referendum sulla costituzione passando per le presidenziali. In Tunisia, Ennahda fa il 40 % della metà degli aventi diritto al voto. E in Libia i Fratelli musulmani locali sono stati sconfitti.
Le attuali difficoltà degli islamisti al potere sono una sorpresa?
Prima di tutto occorre dire che il ritorno al dispotismo non è tra le probabilità. Occorre passare attraverso l’esperienza dell’islamismo al potere. Le correnti integraliste si sono costruite come forze di opposizione con uno slogan semplicistico: l’islam è la soluzione. E’ uno slogan vuoto, ma funzionava in un contesto di miseria e di ingiustizia in cui si poteva vendere questa illusione. Gli islamisti sono dei trafficanti d’oppio del popolo. Da quando sono al potere questa pratica non è più possibile. Sono incapaci di risolvere i problemi della gente. Sono arrivati ai posti di comando in condizioni che nessuno invidia e sono privi di qualunque programma economico.
Si può pensare con fiducia che organizzeranno elezioni che potrebbero cacciarli dal potere?
E’ l’argomento classico: una testa un voto, ma solo per una volta. Salvo che non arrivino al potere in posizione di forza. Il popolo ha imparato a «volere», scendere in piazza. Mai un dirigente, nella storia dell’Egitto, è stato trattato con tanto disprezzo dal suo polo quanto Morsi…
Il modello turco può trasporsi al mondo arabo?
No, non sono Fratelli musulmani quelli che dirigono la Turchia, è una scissione modernista che si è riconciliata con il principio di laicità.. L’AKP turco è la versione islamica della democrazia cristiana europea. I Fratelli musulmani non sono così. Sono un’organizzazione integralista che si batte per la charia e per la quale la parola laicità è una bestemmia. Sul piano economico inoltre non hanno nulla a che vedere: l’AKP incarna un capitalismo di piccoli industriali, mentre i Fratelli musulmani sono parte di un’economia della rendita, fondata sul profitto immediato.
Può descriverci l’influenza del Qatar su queste rivoluzioni?
E’ un rebus. Ci sono dirigenti che collezionano automobili o armi, l’emiro del Qatar, da parte sua, gioca alla politica estera. Si è comportato com un acquirente dei Fratelli musulmani come se avesse comprato una squadra di calcio. Un uomo ha avuto un ruolo fondamentale in questa nuova alleanza che ricorda quella tra Mohamed ben Abdel Wahab (un predicatore, 1703-1792) e la dinastia saudita, nel 18° secolo: si tratta dello sceicco Qaradhawi, capo spirituale dei Fratelli musulmani, che vive da lunga data nel Qatar, dove ha accesso diretto ad Al-Jazira. Tutto ciò in un paese in cui l’emiro non tollera nessuna opposizione.
Come si spiega la compiacenza degli Stati uniti verso i Fratelli musulmani?
Tutto è cominciato durante l’amministrazione Bush. Per i neoconservatori, il dispotismo nazionalista ha prodotto il terrorismo. Occorreva dunque rovesciare i despoti come Saddam Hussein per diffondere la democrazia. Condoleezza Rice ha voluto riannodare l’alleanza che esisteva negli anni 1950-1960 con i Fratelli musulmani. Ma la vittoria di Hamas nelle elezioni palestinesi ha bloccato il processo. L’amministrazione Obama, che ha ereditato una situazione catastrofica in Medio Oriente, ha avuto un atteggiamento indeciso e prudente. Quando tutto è esploso, ha scelto di far finta di accompagnare il movimento. L’ossessione di Washington nella regione, è la stabilità del petrolio. E la traduzione di questa ossessione è la ricerca di alleati con una consistente base popolare.
Perché l’intervento della NATO è stato possibile in Libia e non in Siria?
In Siria ci si trova di fronte al rischio di caos alla libica, ma in un contesto regionale molto più pericoloso. C’è anche il problema del sostegno della Russia e dell’Iran. La NATO ha detto fin dall’inizio che non voleva intervenire. Il problema non è : «Perché l’Occidente non interviene in Siria», ma piuttosto: «Perché impedisce le forniture di armi alla rivolta?». La ragione profonda è la paura del movimento popolare siriano. E il risultato è che la situazione sta marcendo. Il regime siriano finirà per cadere, ma a che prezzo? La miopia dei governi occidentali è allucinante: con il pretesto di non ripetere gli errori commessi in Iraq, cioè l’abbattimento dello stato baasista, fanno ancora peggio. Oggi i siriani sono convinti che l’Occidente lasci il loro paese all’autodistruzione al fine di proteggere Israele.
La sinistra antimperialista vede un complotto americano dietro queste rivoluzioni…
Non è perché le insurrezioni popolari sono sostenute, per opportunismo, da potenze imperialiste che si giustifica l’appoggio a delle dittature. La teoria del complotto americano è grottesca. Basti constatare l’imbarazzo di Washington. Evidentemente, in Siria, dopo quarant’anni di totalitarismo c’è il caos. Ma, come Locke, io preferisco il caos al dispotismo, perché nel caos è possibile una scelta.
Intervista curata da Christophe Ayad
[1] Cfr. Allah n’y est pour rien! Sur les révolutions arabes et quelques autres, Ed. Le Publieur, giugno 2011. Di Gilbert Achcar le edizioni Alegre hanno pubblicato La guerra dei 33 giorni (con Michel Warshawski) e Scontro tra barbarie. Terrorismi e disordine mondiale