Per una sinistra alternativa

Manifesto programmatico dell’associazione Sinistra Critica

2007

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1 Cambiare il mondo è possibile

Il proposito di cambiamenti radicali, che distingue le sinistre alternative della storia contemporanea, è riemerso con il movimento altermondialista e attraverso lo slogan semplice per cui “un altro mondo è possibile”. Ben lungi dall’essere una formula casuale, esso ripropone l’antica aspirazione delle donne e degli uomini che non hanno privilegi da difendere; sintetizza un punto di vista specifico; a suo modo rappresenta l’espressione di una costante storica. Quando coloro che non hanno privilegi e poteri riescono a parlare per sé, manifestano prima di tutto l’intenzione di cambiare il loro destino e di conseguenza la realtà in cui sono costretti e costrette a vivere.
L’onda del movimento altermondialista si è sollevata nell’ultima porzione di un secolo che ha visto l’affermazione prima e il fallimento poi della più grande speranza di cambiamento della contemporaneità, quella del movimento operaio di ispirazione marxista, in modo particolare del comunismo. Nella sua riaffermazione della possibilità che il mondo cambi, l’altermondialismo si è posto nei confronti della recente vicenda politica passata nell’unico modo in cui un percorso di liberazione può ricominciare. La sconfitta non può essere rimossa, né ci si può nascondere come essa agisca nel rendere difficile ogni nuovo inizio e poco efficaci straordinarie lotte; quanto profondamente condizioni i moventi all’agire, lo stile, gli atteggiamenti delle stesse sinistre più radicali. D’altra parte delle sconfitta bisogna pur liberarsi per ciò che essa lascia di perdita della speranza, rassegnazione e cinismo.
Lo stato attuale delle cose porta in sé potenzialità di antagonismo, di rotture e di conflitti capaci di negare prima o poi ogni illusione che si possa ricondurli nell’alveo di proteste moderate e di pressioni garbate verso governi amici. Se una sinistra non saprà farsene interprete, altre culture e altri aspiranti a mutare lo stato delle cose troveranno i loro spazi con rischi di imbarbarimento e regressione di profondità forse ancora oggi sconosciuta.

2 L’occasione dei movimenti

Il movimento dei social forum è stato un fenomeno con elementi straordinariamente positivi. Ha mostrato che la parte di umanità che non si rassegna all’esistente non è solo quella dei cultori della letteratura marxista. Ha portato in superficie bisogni e punti di vista sommersi per l’incapacità dei ceti politici di farsene interpreti e perfino di percepirli. Nelle manifestazioni contro la guerra ha assunto uno spessore di massa e una dimensione globale mai prima sperimentati. Ha riepilogato, attraverso la molteplicità delle presenze e dei linguaggi, l’universo dei discorsi novecenteschi di opposizione dai più moderati ai più radicali. Ma soprattutto ha indicato una dinamica. Nell’alveo dei suoi discorsi radicali differenti soggetti, differenti modi di relazionarsi all’esistente hanno trovato forme e contenuti condivisi, malgrado la diversità delle storie e dei linguaggi.
Alcune esperienze dell’America latina mostrano che su questa strada è possibile andare molto più oltre. L’integrazione in un programma e in una prospettiva comune del sindacalismo operaio, delle culture indigene, delle rivendicazioni del movimento antiglobalizzazione spiega in parte i successi in paesi come la Bolivia e il Venezuela.
Una dinamica convergente, ad altri livelli e con altri ritmi temporali, si era manifestata con la nascita di Rifondazione, che per un certo periodo ha rappresentato una speranza per tutta la sinistra radicale europea. Il Prc aveva raccolto intorno a sé storie diverse, conflittuali e lontane ma animate dalla stessa volontà di resistere e di ricominciare, dalla stessa speranza che cambiare il mondo fosse ancora possibile.
Il riflusso del movimento in Europa e la metamorfosi di Rifondazione non dicono affatto che le dinamiche di ricostruzione di soggettività sono interrotte, ma solo che esse si scontrano con difficoltà di notevole spessore. Il movimento ha pagato il prezzo della molteplicità e delle differenze, che talvolta sono davvero una ricchezza talvolta un ostacolo insormontabile. Ha dovuto poi fare i conti, in questa fase, con la capacità del capitalismo di trasformarsi e resistere alle rivendicazioni e alle lotte.
Un movimento fortemente ancorato alla realtà, che ha la propria ragionefindreplaceadvella pratica degli obiettivi comuni, non può che rifluire in un contesto in cui le conquiste parziali si rivelano assai difficili e la coscienza e la lotta sembrano quindi inessenziali. Diversamente dal ’68, cominciato ai margini della società ma capace per una catena di effetti di investire il centro, non è riuscito a coinvolgere stabilmente settori importanti del corpo sociale.
La catena degli effetti si è spezzata questa volta contro un tipo di organizzazione politica incapace di autoriforma e privo di legami con il lavoro subalterno. E contro un’organizzazione sindacale che quei legami ancora mantiene, ma che ha ingabbiato e lasciato poi liquefare le strutture di base in cui i bisogni si trasformano in energia e le rivendicazioni si politicizzano.
Le difficoltà obiettive spiegano in parte anche la metamorfosi di Rifondazione, la cui direzione aveva saputo riconoscere e valorizzare il movimento, aiutarlo a crescere e a organizzarsi. Contraddittoriamente il Prc è stato partecipe da una parte della radicalità del movimento; dall’altra dello sradicamento e dell’incapacità di autoriforma del resto della sinistra. Il riflusso del movimento ha reso visibile e ha consolidato l’altra faccia di Giano bifronte con una dinamica accelerata di cui la partecipazione al governo rappresenta il traguardo.

3 Dove va la sinistra italiana

La sinistra italiana sembra giunta, alla fine di un difficile cammino, dal Novecento alla caricatura del Novecento. Dalla sua storia differenziata e conflittuale ai suoi stereotipi.
Malgrado il gran parlare di “nuovo” ci vengono oggi riproposte le straordinarie novità di un partito democratico di tipo nordamericano; di una socialdemocrazia che vota i crediti di guerra; di un comunismo che troppo spesso rivendica la parte peggiore di una storia e riproduce in forme paradossali il contrasto tra una simbologia rivoluzionaria e pratiche conservatrici e di potere.
La sinistra sembra condannata a fare l’imitazione di se stessa prima di tutto perché si è rifiutata di regolare seriamente i conti con la propria storia. In secondo luogo perché una nuova sinistra, un nuovo movimento operaio non possono nascere che dal corpo sociale, da cui i ceti politici appaiono oggi più sradicati che mai.
Si tratta in questo momento di prendere atto che si è chiuso un ciclo politico del progetto di Rifondazione comunista. Non solo e non tanto perché la Rifondazione comunista vuole fare la “rifondazione socialista” ma perché ha agito, anche al di là delle singole volontà, la forza dell’eredità della parte peggiore del Novecento. Questa eredità proietta nel presente vecchie pratiche di potere, primazia degli interessi personali, tendenze alla verticalizzazione e alla passivizzazione, autonomia del politico e surreali pretese di una realpolitik solo presunta.
La vicenda del Prc è per alcuni aspetti esemplare, perché processi che nel Novecento hanno conosciuto un’evoluzione più lenta, si sono manifestati con dinamiche accelerate, che ne rendono più evidente la logica interna. Dall’identificazione totale e perfino eccessiva con il movimento alla rottura con il popolo del No Tav e della città di Vicenza. Dal rifiuto senza se e senza ma della guerra e dall’astratta rivendicazione di nonviolenza al voto per l’aumento delle spese militari e per il rilancio del ruolo italiano nella nuova topografia della guerra permanente. E l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo. Alle sue scelte politiche Rifondazione ha pagato il prezzo della chiusura, della perdita di militanti, del ritorno all’epurazione e alla calunnia. La logica della replica, dell’imitazione, della ripetizione si è manifestata anche nelle giustificazioni: la tattica, l’efficacia, la capacità di mediare e di “sporcarsi le mani” ecc. Come se tutte queste cose non avessero già avuto la loro triste storia nel Novecento.

4 Le sinistre europee e l’orizzonte strategico del governismo

La scelta di costituire governi in alternanza con governi di destra caratterizza in questa fase tutti i partiti della sinistra europea, compresi molti della sinistra radicale. Questa scelta quasi unanime è legata in primo luogo ai problemi obiettivi creati dalla globalizzazione, dalla crisi dello Stato fiscale, dalle delocalizzazioni e da tutto ciò che impedisce alle mobilitazioni e alle lotte di produrre conquiste parziali e riforme autentiche. La partecipazione al governo, con la capacità di condizionarne le misure, appare la via meno impervia per limitare i danni e preservare qualcosa della forza passata del movimento operaio. Un quarto di secolo di esperimenti in questa direzione consente un bilancio degli effetti di una scelta che, per la sua durata e le sue implicazioni, deve ormai essere considerata strategica. La vicenda francese, per le sue specifiche caratteristiche di realtà in cui tutti i fenomeni si manifestano con una maggiore accentuazione, può essere considerata una metafora della vicenda politica europea. In Francia il calo drastico del potere d’acquisto dei salari, la perdita di servizi e di tutele è avvenuta in anni di alternanza, in cui però i partiti della sinistra sono stati più di quelli della destra al potere.
Gli effetti sono stati evidenti nel balzo della destra estrema dal 3 al 17%, nella desertificazione politica che hanno prodotto le rivolte urbane delle banlieus, nei processi di sradicamento ulteriore di parte sempre più ampia delle sinistre. E soprattutto nel paradosso di un “popolo di sinistra” che nelle ultime elezioni presidenziali si è trovato a dover scegliere non più tra una destra e una sinistra, ma tra due destre, di cui una decisamente razzista e perfino antisemita. Fortunatamente in Francia è stato evidente anche il rovescio della medaglia nella vittoria contro il contratto di primo impiego, strappata da movimenti e da lotte, in una logica di unità e radicalità e di cui una sinistra autenticamente radicale è stata la miccia e la protesta giovanile la condizione sine qua non.
In Italia il governo di centrosinistra sta rafforzando, se non necessariamente questa destra, certo il radicamento di umori di destra e le premesse di radicalizzazioni antisistemiche di destra.

5 Crisi di soggettività e crisi della politica

Non sono solo le difficoltà, la miopia o le illusioni a produrre lo stato attuale delle cose. La crisi dell’umanità coincide, infatti, con la crisi della sua parte (come scriveva Marx) più capace di “intendimento”. È cioè una crisi grave di soggetto, che non è stato solo una classe e tanto meno un partito, ma l’insieme complesso, differenziato, fratricida e suo malgrado sinergico che nel Novecento chiamammo “movimento operaio”.
La crisi della soggettività viene percepita come crisi della politica, come caduta delle illusioni sulla sua onnipotenza, ma essa è in realtà l’esatto contrario di ciò che questa percezione ingannevole suggerisce. La crisi di soggettività è l’effetto di un processo di espropriazione della possibilità di fare politica dei settori più dinamici delle classi subalterne, di progressiva avocazione a sé da parte di una corporazione privilegiata, di separazione e sradicamento dei ceti politici.
Ciò che può non è la politica, ma la politicizzazione. Ciò che è divenuto impotente è una politica che non si alimenta dei bisogni, dei sentimenti, degli angoli di visuale del corpo sociale, che non li percepisce, non li decodifica, non li rielabora e non li restituisce come sapere coerente con specifiche condizioni di vita. E tutto ciò affonda nelle vicende del secolo scorso, nella sconfitta, negli errori e nella perdita di sé del soggetto della trasformazione. Il compito del nostro tempo è il recupero di questo soggetto, la riproposizione delle sue potenzialità, la ricostruzione della sua efficacia.

6 Ricomporre il sociale per trasformare l’esistente

Le tendenze alla ricomposizione proprie di una fase in cui tanta gente diversa viene colpita; quelle alla scomposizione, per le difficoltà di vincere e per le logiche d’apparato, sono ancora tutte presenti nel rapporto tra politica e società. Il movimento altermondialista ha perso la forza della coesione e della spinta di massa, ma molte delle sue articolazioni ora scavano più a fondo alla ricerca di un radicamento nel territorio e nel corpo sociale. Le mobilitazioni contro le grandi opere che devastano l’ambiente (Val di Susa) e la militarizzazione dei territori (Vicenza), la ricomparsa in piazza del femminismo e le manifestazioni per la laicità e per i Pacs del movimento Lgbtq, le lotte degli studenti e degli insegnanti e il permanere di una sensibilità diffusa contro la guerra, sono le espressioni di un sommovimento di cui i social forum sono stati solo un momento alto e un episodio.
Il soggetto che si delinea all’orizzonte appare più articolato e frammentario di quanto sia stato il vecchio movimento operaio nel corso della sua storia. In questa caratteristica si combinano fenomeni di qualità diversa: la dispersione prodotta dalle dinamiche di questa fase dell’egemonia del capitale; l’emergere di soggettività molteplici, di rivendicazioni e di bisogni fino a ieri senza voce. Differenziazioni di genere, nazionali e generazionali, collocazione produttiva disgregata, rendono più difficile la ricomposizione di un insieme sinergico, determinato nelle lotte, in grado di guadagnare il percorso per un cambiamento di sistema.
Nonostante la sua dispersione e la sua, relativa, invisibilità, il lavoro dipendente continua a crescere mentre si riduce drasticamente la sua quota nella redistribuzione generale del reddito. E a ridursi sono anche i diritti, le protezioni sociali, le conquiste ottenute in una lunga vicenda di rivoluzioni, di riforme e di lotte.
Il lavoro dipendente nella sua più ampia accezione – non solo figure legate alla produzione di beni materiali ma anche a quella di beni immateriali e/o del lavoro intellettuale (formazione, informazione, ecc.) – si trova quindi in una condizione latente di frammentazione che discende dalla fase attuale dell’accumulazione capitalistica. La frammentazione agisce velocemente nel cuore del sistema produttivo, segmentandolo, e si ripercuote a velocità doppia fuori da questo con la crescita di un soggetto precarizzato che entra ed esce dalla produzione, materiale e immateriale, costituendo una sorta di zona grigia senza diritti (o con diritti ridotti al minimo vitale), senza prospettive e senza futuro. Un esercito industriale di riserva in termini moderni conferma dunque un’intuizione centrale del pensiero marxiano e spiega in parte la debolezza attuale del lavoro salariato e di ciò che resta della sua organizzazione.
Alla logica di mercato che frammenta le figure del lavoro subalterno si coniuga tuttavia una molteplicità di processi di soggettivazione legata alla complessità maggiore del capitalismo contemporaneo, al moltiplicarsi delle voci in grado di criticare e di rivendicare. I luoghi di formazione di soggettività antagoniste sono molteplici e in larga misura ancora sconosciuti: popolazioni in lotta contro ecomostri, radiazioni nucleari o basi militari; associazioni per l’acqua e contro l’inquinamento; piccoli e numerosissimi gruppi femministi e Lgbtq; comitati di quartiere che si fanno e che si disfano sulle proteste e sui bisogni tra loro più diversi, migranti che rivendicano il diritto alla libera circolazione. E soprattutto una vocazione a resistere contro la violenza diffusa delle leggi capitalistiche; è su questa vocazione che è possibile ricostruire un futuro.

7 L’organizzazione sindacale

La ricomposizione delle figure-lavoro subalterno richiede mezzi in parte inediti, in parte mutuati da precedenti esperienze. Serve prima di tutto un sindacato di classe, di massa, combattivo, indipendente e alieno dalla logica della concertazione con padronato e governo. Questo strumento oggi non c’è e la sua costruzione è un tassello decisivo per la ricostruzione del soggetto del cambiamento. La rifondazione dell’organizzazione sindacale sarà possibile solo se settori decisivi del lavoro salariato faranno di nuovo irruzione nella scena politica. Da decenni in Europa la subalternità delle grandi organizzazioni sindacali produce forme parziali e transitorie di autorganizzazione, nuovi fenomeni di sindacalismo di base, episodi di autonomia e di separazione. Il gran numero di sigle, di associazioni e di bisogni specifici autorganizzati (visibile soprattutto, ma non solo, in Francia e in Italia) denuncia prima di tutto l’inadeguatezza dell’organizzazione maggioritaria esistente, ma è anche l’espressione della capacità di autodifesa di settori di lavoro salariato e della tendenza alla riappropriazione di quello che Marx chiamava “valore d’uso della forza-lavoro”. Il limite di queste esperienze è la loro frammentarietà, la difficoltà a dar vita a dinamiche di ricomposizione, a convergere verso resistenze e obiettivi comuni.
La rifondazione dell’organizzazione sindacale passa oggi attraverso esperienze e aggregazioni sindacali estranee alla logica della concertazione e soprattutto capaci di tradurre l’attività di lavoratrici e lavoratori in forme stabili di rappresenza democratica e partecipata. Può realizzarsi in episodi di lotta, capaci di ricomporre la radicalità frammentaria o latente che si manifesta fuori e dentro le confederazioni sindacali.

8 L’organizzazione politica necessaria

Il partito non può pretendere lo statuto di forma eterna e la prova che nel Novecento i partiti hanno dato di se stessi impone di riflettere su ciò di cui davvero abbiamo bisogno per arrestare la frana dei rapporti di forza e riprendere il cammino verso il cambiamento. L’esperienza più recente, le caratteristiche attuali del capitalismo, il rifiuto del vecchio monolitismo ci dicono della necessità di forme organizzative plurali e molteplici, dell’autorganizzazione di bisogni e soggetti, degli spazi liberi per rivendicazioni capaci di parlare un linguaggio universale, come l’insistente domanda di pace. Tuttavia, se anche tutto questo si realizzasse non sarebbe sufficiente. Quando pensiamo a che cosa sarebbe anche e soprattutto necessario, si delinea all’orizzonte una forma organizzativa molto simile a un partito nelle sue manifestazioni migliori. Servono una critica razionale del modo capitalistico di produzione e un progetto di trasformazione. Serve un modo di guardare al mondo e di raccontarne la storia. Serve un volontariato attivo animato dalla passione e dall’intelligenza che porti nella società quella critica e quel progetto. Serve una storia, capace di trasmettere a ogni soggetto attivo della politica una cultura di opposizione all’esistente e di lotta.
Il partito che noi vogliamo non è l’autorganizzazione di ceti politici, il canale che seleziona il personale per i ruoli nelle istituzioni. È il partito in cui costruire collettivamente una visione comune della politica, non per una pretesa organicista, ma perché l’agire politico è legato a un coagulo di fattori diversi, talvolta imprevedibili e insondabili, spesso non visibili da una posizione decentrata o settoriale.
Il partito che noi vogliamo non si considera depositario dell’ortodossia marxista, né considera il marxismo l’unica teoria di liberazione a cui far riferimento: è perciò un partito ecologista e femminista, aperto ai contributi di esperienze e di culture diverse. È un partito sessuato in cui i giovani non siano relegati in una sorta di riserva indiana, ma protagonisti attivi del loro destino. È un partito interno ai movimenti, che dialoga senza alcuna presunzione di primato, ma che cerca di conquistare con atti e parole al proprio progetto, che è poi il significato autentico di quella che Gramsci chiamava egemonia. È un partito di lotta, espressione dei settori della società senza privilegi né poteri. È un partito che aspira a governare ma solo con il sostegno, la partecipazione, il controllo della parte oppressa e sfruttata della società. È un partito che dà valore alla fatica quotidiana del lavoro politico volontario e militante, senza il quale non ci sarebbe continuità nelle lotte, trasmissione di esperienze, resistenza, consapevolezza collettiva e azione.
La prospettiva della costruzione di un partito del genere ha prima di tutto un valore simbolico e ideale. È qualcosa a cui tendere; è un’immagine capace di orientare il lavoro politico; si deduce anche per differenza dagli errori e dalle nefandezze del movimento operaio del Novecento. Per la sua costruzione serviranno grandi eventi costituenti, irruzioni nella politica di nuove soggettività, esperienze di massa e snodi politici.

9 Elogio dell’opposizione…

Se la ricostruzione di soggettività è il nostro compito storico, anche per questo motivo non ha alcun senso la prospettiva di un governo in cui la sinistra radicale collabori con forze social-liberali, in una logica di idealizzazione dell’esistente. Oggi le sinistre radicali, anticapitalistiche e/o rivoluzionarie dovrebbero far proprio l’elogio dell’opposizione, perché questa è la posizione in cui obiettivamente si trovano i settori della società, i bisogni e le rivendicazioni a cui esse dicono di far riferimento. Governare senza una base sociale di sostegno, in assenza di un soggetto popolare di massa, accentua il distacco delle istituzioni dalla società e quindi i fenomeni di disorganizzazione e depoliticizzazione del lavoro subalterno. La partecipazione al governo in condizioni che non lo consentirebbero per numerose ragioni si è costantemente rivelata incompatibile con il lavoro di ricostruzione di soggettività indebolite e frammentate dall’offensiva capitalista e in un’ultima istanza incapace di delineare un quadro più avanzato in direzione di un’alternativa di società. Al governo un partito smette di esercitare la sua funzione di critica dell’esistente, perché è costretto a giustificare e idealizzare il proprio operato. Si rende corresponsabile di attacchi alle condizioni di vita di settori popolari con l’effetto di recidere anche ciò che resta delle proprie radici. Sollecita un’ottica tutta istituzionale, stimola gli appetiti, incoraggia gli ambiziosi, distoglie lo sguardo dai suoi punti di riferimento sociale. Solo movimenti costantemente attivi, settori di massa popolari autorganizzati, parti di società capaci di decisione e di controllo rappresentano gli antidoti alle logiche proprie dei ceti politici e possono costringerli a muoversi nella direzione più utile al cambiamento.

10 …dell’immaginazione rivoluzionaria…

Bisogna assolutamente recuperare la prospettiva della rivoluzione, anche perché quando la rivoluzione non è pensabile, anche il riformismo non è possibile.
Oggi l’orizzonte sembra chiuso e le conquiste parziali sono assai più difficili, perché la rivoluzione è scomparsa dall’orizzonte delle cose possibili. Per ricominciare a sperare un’intelligenza collettiva ha bisogno di riafferrare il bandolo della rivoluzione nel senso della sua attualità.
In gran parte del Novecento la rivoluzione è stata attuale non perché sia stata sempre, in ogni momento, possibile. Al contrario gli eventi rivoluzionari sono stati l’eccezione e la permanenza degli ordini gerarchici la regola. La rivoluzione è stata attuale in gran parte del XX secolo perché esistevano nella realtà dinamiche, correnti, soggetti che si muovevano nella direzione di cambiamenti radicali. Essi convivevano con fenomeni di segno opposto, che sono poi risultati vincenti, ma la rivoluzione restava comunque una possibilità, anche se incerta per tutte le visioni non deterministiche della storia.
Riafferrare concettualmente il bandolo della rivoluzione è possibile. La rivoluzione radica la sua attualità in primo luogo nella costante attitudine umana alla ribellione e alla rivolta. Essa è ancora oggi attuale anche dal punto di vista antropologico. L’attualità della rivoluzione, dal punto di vista antropologico, non è un espediente consolatorio per dire in altra forma che un altro mondo a tempo indeterminato non sarà possibile. Non viviamo più nei contesti della rivolta degli schiavi o della jacqueries. Allo sviluppo sociale culturale si accompagnano, inoltre, le logiche della globalizzazione che a poche comunità umane consentono di vivere isolate dal resto del mondo. Il passaggio dall’attualità antropologica all’attualità storica non è perciò una remota possibilità, anche se non può considerarsi una certezza.

11 …e dell’unità d’azione

La politica non si riduce a predicazione della rivoluzione prossima ventura e l’assenza di uno sbocco politico immediato non può ridurre all’immobilismo. L’esperienza più antica e recente del movimento operaio, la dinamica del movimento dei movimenti, le poche lotte vincenti degli ultimi anni insegnano il valore rivoluzionario dell’unità d’azione. L’unità che non parte o non arriva alla società non porta a nulla che serva davvero al cambiamento; l’unità si costruisce con la partecipazione diretta dei soggetti sociali.
Nel corso degli ultimi anni essa ha dato concrete prove di sé con le grandi mobilitazioni del movimento antiglobalizzazione e del movimento pacifista. Nella lunga traversata imposta dalla necessità di ricostruire un soggetto per la trasformazione, l’unità ha oggi un valore forse senza precedenti. Essa costituisce la forma più concreta ed efficace di costruzione di effetti virtuosi e sbocchi politici, anche di governo. Se per governo si intende la prosecuzione della lotta di massa; la conquista, il consolidamento o la difesa di misure anticapitalistiche, la diffusione della democrazia diretta; la costruzione di una condizione necessaria al cambiamento.

12 La critica delle strutture patriarcali

Un contributo prezioso alla comprensione di questo difficile momento dell’umanità, per la crisi delle sue intelligenze collettive, viene dalle teorie e dalle pratiche dei movimenti femministi. Le espressioni migliori delle culture femministe aiutano a comprendere la logica con cui le relazioni di potere reciprocamente si sostengono o si contraddicono. La relazione di potere tra donne e uomini ha fornito il modello a tutte le altre, è “l’infamia originaria” che ancora oggi si oppone alle liberazioni e alla coscienza di classe. Se settori ampi di proletariato sono stati e sono preda di destre misogine e razziste, questo dipende in primo luogo dal loro modo di rapportarsi al femminile.
Negli Stati Uniti spesso una classe operaia bianca è precipitata in condizioni di vita peggiori per aver sostenuto ideologie imperniate sulla rivendicazione che le donne fossero ricondotte al loro posto e al loro ruolo.
In una fase di ascesa degli integralismi, le lotte delle donne e del movimento Lgbtq hanno una funzione civilizzatrice e contendono spazi alla destra post-fascista e clericale.
Le espressioni migliori del femminismo sollecitano l’indipendenza delle donne, il loro senso critico e la loro capacità di resistere come lavoratrici. Consentono a una sinistra anticapitalistica di fruire di un’esperienza teorica e pratica, senza la quale la capacità di orientarsi nel mondo è destinata a restare solo la metà del possibile e del necessario.
Il movimento che si definisce queer o Glbt o Lgbtq o in altri modi secondo le scuole di pensiero, le preferenze e le fantasie è parte integrante della lotta contro le strutture patriarcali. Alla fobia per l’omosessualità, il lesbismo e il transgenderismo concorrono ragioni diverse e stratificate. La ripulsa delle ideologie patriarcali per tutto ciò che confonde e mescola ruoli e differenze; il disprezzo del femminile, da cui è derivata in società guerriere la stessa omosessualità maschile, che spesso inferiorizzava la “checca”, il gay dagli atteggiamenti femminili; la natura infeconda di una relazione amorosa in comunità in cui la prole era una ricchezza; la diffidenza nei confronti della diversità e di tutto ciò che sembra violare una norma.
Su questo complesso di ragioni storiche, psicologiche e antropologiche si è innestato il ruolo conservatore delle religioni e della Chiesa, la tendenza delle destre a fondare le proprie fortune politiche su arcaismi e superstizioni popolari; l’interesse delle oligarchie economiche a disporre di destre con cui combattere o arginare l’influenza delle sinistre; l’esigenza di controllo sulla riproduzione come controllo sul lavoro salariato.
Come il femminismo, anche il movimento queer, assolve una funzione civilizzatrice, contribuendo a demolire i “limiti interiori” della decolonizzazione e gli arcaismi autolesionisti delle classi subalterne.

13 Le radici del Novecento

La ricostruzione di soggettività capaci di restituire attualità alla trasformazione impone una rilettura del XX secolo. È anche vero che la storia è un racconto, ma si tratta di un racconto assolutamente necessario alla comprensione del presente e alla costruzione del futuro.
Prendere posizione di fronte al Novecento non significa soltanto disporsi a una ricerca effettiva. Significa scegliere una posizione da cui ricominciare. La posizione da cui ripartiamo è la proiezione nel presente del pensiero marxista rivoluzionario e antiburocratico, del femminismo dell’uguale libertà e del riconoscimento del diritto alla resistenza dei popoli vittime della colonizzazione e della guerra.
Le acquisizioni sul Novecento possono essere elencate in maniera semplificatissima ma comprensibile.
Il marxismo come critica di un modo di produzione in cui uno dei due poli della relazione di classe ne detiene i mezzi e l’altro è lavoro asservito e tendenzialmente sempre più svalorizzato.
La tradizione rivoluzionaria come consapevolezza che, malgrado le metamorfosi, i miglioramenti, la capacità di adattamento la logica di fondo di quel modo di produzione non cambia; che per sua natura il capitalismo tende sempre a riprendersi con gli interessi ciò che era stato costretto a dare e che per questo va abolito.
La rivoluzione d’Ottobre non come forzatura storica e violenza, ma nella sua completa maturità, che è consistita nella maturità di un soggetto costruito da un complesso di circostanze specifiche, ma anche capace di diventare paradigma e sostegno materiale e simbolico di eventi rivoluzionari nuovi e diversi.
Il legame costituitosi nel corso del secolo tra questo evento e l’attività di altri soggetti di liberazione, che hanno fatto del Novecento il secolo delle classi subalterne, delle donne e dei popoli oppressi e, prima di tutto per questo, anche il secolo della violenza e del terrore.
Una diagnosi precisa dei fallimenti del fenomeno della burocratizzazione, che è un processo di espropriazione simile a quello dell’estorsione di plusvalore trasferito dall’economia alla politica. Questo angolo di visuale non esclude altre considerazioni. Per esempio sulle capacità del capitalismo di svilupparsi e di superare contraddizioni vecchie o immaginate. Per esempio sulle debolezze e i limiti di capacità di costituirsi in soggettività politica autonoma del lavoro salariato. La priorità del tema della burocratizzazione consiste solo nel riconoscimento che il potere di modificare la realtà si colloca per noi su quel terreno: molto dipende da ciò che costruiamo, dalla logica in cui lo costruiamo, dagli antidoti che in quelle costruzioni immettiamo.
La vicenda complessiva dei movimenti di donne e dei femminismi per la critica che essi hanno esercitato nei confronti delle relazioni di potere, della loro carica di liberazione e di civilizzazione.
Le rivoluzioni, le resistenze, le rivolte dei “dannati della terra”, dei popoli colonizzati e sottoposti a usura, spoliazione, dominazione politica e sterminio.
Il Novecento è un campo di battaglia che ci consegna la memoria dei vinti. Vinti sono coloro che hanno osato ma che hanno perso, coloro che ci consegnano la memoria della loro lotta, le sue ragioni, la sua necessità. Il fatto che abbiano perso non vuol dire che avessero torto. Restano vittorie, diritti acquisiti radicati nelle coscienze. Resta un’idea della solidarietà sociale, dell’uguaglianza, del lavoro come strumento di emancipazione e quindi diritto inalienabile. Resta un’idea della pace non solo come assenza di guerra ma come giustizia sociale, superamento dell’orrore e rifiuto dell’aggressione.
Resta, inoltre, un patrimonio di idee e di conoscenza che non perde freschezza e utilità per l’oggi anche se in un continuo processo di aggiornamento. Le idee di Marx, Lenin, Trotzky, Rosa Luxemburg, Gramsci, Che Guevara e di tanti altri e altre che hanno costruito sapere e coscienza del processo di liberazione e dei meccanismi di protagonismo democratico, apparentemente hanno perso la sfida con il loro tempo. Eppure il loro lascito resta un punto di vista, un prisma regolatore del mondo reale che aiuta a non perdersi nei meandri dell’ideologia dominante e delle vulgate nuoviste di turno, costituisce la piattaforma su cui poggiare i necessari aggiornamenti e le necessarie novità in grado di leggere la realtà attuale. Senza nostalgia e retorica, senza dogmatismi e schematismi, crediamo che strappare questo patrimonio al territorio delle ombre sia irrimandabile per una sinistra anticapitalista e rivoluzionaria.
La nostra idea del recupero del Novecento è il recupero delle ragioni dei vinti, è il tentativo di incarnarne oggi la verità negata o battuta. In questo sguardo all’indietro recuperiamo quindi le nostre radici. Quelle che servono a costruire le ali di un nuovo balzo in avanti della storia.

14 Il capitalismo globalizzato e la crisi di civiltà

Proprio quando gran parte degli eredi del movimento operaio del Novecento hanno deposto le armi della critica in cambio di sostanziose pensioni di reduci di guerra, il capitalismo rivela fino in fondo la sua profonda irrazionalità distruttrice. Crisi ambientale, impoverimento e guerre rappresentano oggi il suo volto uno e trino. In certe zone del mondo, soprattutto in Africa, la combinazione tra fenomeni ecologici economici e militari è stata documentata dalle Ong, dall’Onu o da specifiche inchieste giornalistiche.
Per ricominciare a orientarsi nel mondo, bisogna soprattutto comprendere una logica di fondo. Sono venuti meno negli ultimi decenni gli argini che impedivano alle logiche capitalistiche di scatenare tutto il loro potenziale distruttivo. Si sono indeboliti o sono scomparsi i rapporti politici e le istituzioni capaci di rendere in parte inoperanti i meccanismi cumulativi perversi del capitale. Per giunta, e in evidente rapporto con il venir meno di quegli argini, contraddizioni e dinamiche si manifestano oggi su scala mondiale a un livello senza precedenti. Conflitti interimperialistici, ruolo degli stati nazionali ed espropriazione neocoloniale sono ancora operanti o possibili, ma agiscono in combinazione con i processi di mondializzazione e si manifestano quindi anche in forma diversa.
Partire dalla crisi ambientale e dai cambiamenti climatici significa afferrare il bandolo della questione dall’angolo di visuale meno contestabile, più evidente e meno esposto all’accusa di ideologia. Il capitalismo è il principale responsabile della devastazione dell’ambiente perché per esistere e sopravvivere non può imporre a se stesso dei limiti. Altri modi di produzione e altri rapporti sociali sono stati a loro volta responsabili di saccheggio e violenza nei confronti della natura. Per nessuno degli altri però hanno rappresentato allo stesso modo le condizioni sine qua non dell’esistenza. Tutti i concetti che significano la prosperità dell’economia capitalistica sono caratterizzati da un più e da un movimento ascendente: autovalorizzazione, riproduzione, surplus, plusvalore ecc. Il capitale è in ultima analisi come una specie animale costretto per sopravvivere a riprodursi senza fine. Il saccheggio delle risorse, lo sfruttamento delle materie prime, l’indifferenza ai mutamenti climatici ne sono l’ovvia conseguenza. Tanto più che le oligarchie economiche più forti sono anche quelle a più alta intensità distruttiva e più responsabili dell’emissione di gas, dell’inquinamento delle acque e della deforestazione.
Alla crisi ambientale si accompagna la crisi sociale. Nei paesi capitalistici centrali non esistono più i rapporti politici che hanno costretto per decenni il capitale a contrattare con i sindacati salari, protezione sociale e intensità dello sfruttamento. Nei paesi che si chiamarono del “terzo mondo” la distruzione delle economie di sopravvivenza e l’incapacità del capitalismo di incorporare tutti quelli che avrebbero bisogno di un salario generano fame, pandemie, guerre civili e impossibilità di accesso all’acqua. A livello globale la ricerca di profitti ha già prodotto la torchiatura del lavoro salariato, la ricerca continua di tutto ciò che resta da prendere, privatizzare e trasformare in merce. Le dinamiche della globalizzazione hanno consentito a pochi di uscire dalla povertà e hanno peggiorato invece le condizioni di vita di molti. E soprattutto di molte, perché la povertà è soprattutto femminile, come hanno documentato le quattro conferenze dell’Onu sulle donne.

15 Il capitalismo, le guerre e la morte come bisogno indotto

L’insieme dei processi e delle tendenze che hanno caratterizzato il capitalismo negli ultimi decenni è il terreno di una guerra permanente ed endemica. L’amministrazione Bush l’ha dichiarata nelle forme esplicite e brutali proprie della destra del partito conservatore nordamericano e dell’umore della parte di società che ne ha consentito l’ascesa. Tuttavia la diffusione e l’intensificazione dei conflitti armati sono già cominciate nei primi anni Novanta. Le guerre sono prima di tutto guerre imperialiste per la difesa dei sistemi globali maggiori, cioè delle reti finanziarie, commerciali, di trasporti e di energie. E naturalmente per la conservazione o la creazione delle condizioni politiche che lo consentano. Molte guerre civili o di frontiera, soprattutto in Africa, hanno alle spalle compagnie e apparati di stato occidentali interessati a importanti materie prime. Nei paesi devastati dalle guerre civili spesso il cambiamento climatico si è già tradotto in distruzione dei mezzi tradizionali di riproduzione sociale e le guerre aprono la strada a genocidi per l’appropriazione del poco che la natura ancora offre e che le compagnie occidentali non predano.
Le guerre civili sollecitate da interventi esterni non sono solo un fenomeno africano: con altri moventi in altre forme qualcosa del genere è avvenuto, per esempio nella ex-Jugoslavia.
Con la guerra si infrangono scomodi confini, si conquistano postazioni per il controllo di mercati e di materie prime, si costruiscono e si difendono paradisi fiscali. La potenza militare attira gli investimenti, intimidisce i concorrenti sul mercato mondiale, costituisce in se stessa un’industria finanziata dallo Stato e capace di accrescere il numero degli acquirenti, facendo della morte un classico bisogno indotto. La diffusione della violenza è accresciuta dalla privatizzazione dei cosiddetti “compiti di sicurezza”, poiché la ricerca ininterrotta di profitti ha prodotto società militari private, che in Iraq (per esempio) rappresentano la seconda armata di occupazione.
È solo in questo quadro che si comprende il ruolo dei paesi economicamente più sviluppati, il cui maggiore potere economico e le forme più sofisticate di organizzazione politica si accompagnano a un più efficace apparato militare. Il militarismo non è mai scomparso in Francia e in Gran Bretagna, conosce un rilancio in Germania e in Giappone, ma è diventato negli Stati Uniti funzione delle rendite e dei profitti. Quel che preoccupa della più grande potenza del mondo è lo squilibrio tra gli elementi di fragilità economica e politica e la forza dei suoi apparati industriali-militari.
Malgrado i suoi differenti deficit l’economia statunitense ha continuato a crescere, smentendo la teoria del “declino americano”, ma l’inattesa vitalità si fonda sulla dipendenza o addirittura sulla predazione del resto del mondo. Il sentimento di insicurezza che spesso i predatori maturano contribuisce a rendere pericoloso uno stato di cose, che già induce gli Usa ad affidarsi sempre più alle armi per risolvere le contraddizioni e i problemi.
In questo contesto l’opposizione tra unilateralismo e multilateralismo rivela tutta la sua vacuità. Il secondo è guerra non meno del primo: ha gli stessi moventi, usa gli stessi mezzi, produce gli stessi effetti. D’altra parte, allo stato attuale delle cose, quella opposizione non ha alle spalle alcuna effettiva contraddizione. Per ovvi motivi gli Stati Uniti oscilleranno tra l’uno e l’altro, ma in un contesto di comuni interessi e di stretta alleanza con l’Europa. Per altro la politica estera dell’Europa in questa fase sembra avere per obiettivo quello di coprire i terreni e di dare il cambio nelle imprese in cui gli Usa hanno fallito. Francia e Germania sono tra gli stati che hanno raccolto il testimone in Afghanistan e che formano la spina dorsale dell’alleanza politico-militare che agisce nel Libano per preservare la posizione di Israele e quindi degli Stati Uniti. L’Italia si pone in questa scia.
Questo non significa che nella conflittualità crescente globale non si delinei all’orizzonte anche quella tra potenze nucleari, ma è all’Asia che bisogna guardare per comprendere dove maturino le possibilità di conflitti con le potenze capitalistiche centrali.

16 Pacifismo radicale e non violenza

In questa fase della storia delle relazioni umane non esiste altra possibilità di resistere alla barbarie che il pacifismo radicale, quello appunto senza se e senza ma.
Non abbiamo condiviso l’appello alla nonviolenza pur nutrendo il più grande rispetto per coloro che davvero la praticano e davvero le credono. Le riserve sulla nonviolenza non sono incompatibili con la critica della violenza. Critichiamo la violenza come mezzo privilegiato del dominio di esseri umani su altri esseri umani. Crediamo che uno dei principali valori della nostra etica debba essere il massimo rispetto possibile della vita umana. Rifiutiamo ogni forma di deviazione militarista del conflitto di classe. Riconosciamo non solo che nel movimento operaio sono esistite deviazioni militariste, ma anche che la migliore tradizione rivoluzionaria può e deve essere riesaminata da questo angolo di visuale. Critichiamo soprattutto il militarismo e la violenza come espressione del dominio di un sesso. Non ci sembra privo di significato politico il fatto che nei contesti di conflitto armato le donne sono inevitabilmente respinte al margine.
Ma rifiutiamo l’idea che la nonviolenza possa essere una scelta del tutto unilaterale: non siamo solo noi a decidere quale forma assumerà un conflitto. Rifiutiamo in secondo luogo l’idea che violenza e nonviolenza siano un’opposizione, cioè che la nonviolenza sia il contrario della violenza. Nella realtà invece l’una e l’altra possono manifestarsi come una sola cosa, quando l’impossibilità di minacciare o praticare una difesa non pone alcun limite alla violenza.
L’alleanza militare contro la Germania nazista e la Resistenza sono l’esempio più evidente dell’impossibilità politica ed etica di praticare una nonviolenza di principio, rimuovendo l’esigenza drammatica di resistere alla barbarie o di difendere i percorsi di liberazione aggrediti. Bisogna tuttavia riconoscere che oggi siamo in tutt’altro periodo della storia per l’ampiezza della guerra diffusa e permanente, per la portata distruttiva degli armamenti, per l’analogia dei comportamenti imposti dalla mondializzazione.
In un tempo che ri-genera la barbarie l’unica realpolitik possibile è la lotta per la rinuncia unilaterale e generale (l’una e l’altra insieme) alle armi di distruzione di massa, per lo smantellamento delle basi militari, per il ritiro delle truppe dai campi di battaglia, per la drastica riduzione delle spese militari, per una cultura di convivenza e di pace. Il pacifismo radicale non esclude il diritto alla resistenza dei popoli vittime dei macelli e delle aggressioni. Ma non ogni atto in nome della resistenza è legittimo. Gli atti di ingiustificata ferocia, quelli rivolti contro la popolazione e la degenerazione delle resistenze armate non sono solo inaccettabili dal punto di vista dell’etica. Essi alimentano e giustificano le violenze dei più forti; sono rivelatori di “limiti interiori della decolonizzazione” e non promettono quindi nulla di buono per un futuro, sia pure liberato dagli eserciti statali e privati degli imperialismi.

17 Per un nuovo internazionalismo

Una sinistra anticapitalista non è pensabile solo su scala nazionale. Non lo è mai stata e oggi lo è meno che mai. Marx si impegnò in prima persona nella costruzione di un’internazionale; i partiti socialisti europei si legarono alla fine del XIX secolo in un’internazionale; la rivoluzione d’Ottobre consentì la costruzione di un’internazionale; la lotta allo stalinismo prese a un certo punto la forma di un’internazionale. Il declino dell’internazionalismo è stato anch’esso l’effetto di una specifica dialettica tra dinamiche obiettive e scelte soggettive. Il ruolo dello stato nazionale nella concorrenza tra oligarchie economiche e come ambito in cui le burocrazie hanno potuto costruire le loro fortune, ha reso impossibile lo sviluppo su scala mondiale di un collegamento stabile tra esperienze diverse in grado di opporsi all’esistente.
Il movimento altermondialista ha detto di nuovo che l’internazionalismo è necessario e possibile. Ma ancora prima di questo movimento in una logica internazionalista e in reti internazionali si è disposto il femminismo. Nella IV Conferenza dell’Onu sulle donne e nella Marcia mondiale delle donne del 2000 e del 2005, questa disposizione è diventata visibile e ha acquisito dimensioni popolari e di massa. Nella sua tradizione migliore l’internazionalismo è prima di tutto lotta comune, insieme di azioni collettive sui nodi della lotta globale; è poi solidarietà con i popoli in lotta, comprensione profonda delle loro ragioni, decodificazione dei loro linguaggi politici.
I forum sociali sono stati e continuano a essere un importante luogo di formazione di una visione comune, capaci di rendere meno propagandistica e più comprensibile la necessità di costruzione di un’internazionale di massa anticapitalista, rivoluzionaria e democratica.
La costruzione di una sinistra anticapitalistica sul piano europeo e internazionale si colloca in questo quadro. Una sinistra legata ai movimenti, luogo di elaborazione politica conseguente, rispettosa delle sue componenti e della loro autonomia, efficace socialmente, coerente politicamente. Una sinistra anticapitalistica condizione di una sinistra più forte, in grado di contendere l’egemonia sul movimento operaio alla socialdemocrazia. Oggi esistono forme embrionali di questo progetto: una Conferenza europea della sinistra anticapitalistica ha riunito da alcuni anni forze provenienti da culture ed esperienze diverse e impegnate nella ricerca di una convergenza più ampia. Ma lo sforzo per costruire una sinistra anticapitalista più forte e incisiva di quella esistente resta intatto. Per questo vogliamo partecipare alla costruzione di questo progetto nelle diverse forme che oggi si rendono necessarie.

18 Ancora per il socialismo…

Dinanzi al potenziale distruttivo di un modo di produzione ormai senza argini né limiti due reazioni sono possibili; due reazioni di fatto si realizzano nel confuso processo di scomposizione, ricomposizione e decomposizione delle storie eredi del movimento operaio del Novecento. Al di là delle evocazioni identitarie, la realtà delle cose si riduce a una difficile alternativa. Si può ritenere che le drammatiche emergenze del XXI secolo non lascino il tempo e le concrete possibilità di costruzione di un’alternativa autentica. Ci si può allora impegnare per impedire che le forze della barbarie dispieghino fino in fondo il loro potenziale, per gestire una pericolosa transizione e perché il danno sia comunque minore.
Si può ritenere invece che la logica del minor danno serva solo a ritardare (e di ben poco) i danni maggiori o addirittura a farne maturare di più gravi e scommettere ancora una volta sul socialismo. I suoi margini sono ristretti, ma non inesistenti. Potrebbe dare coraggio la constatazione che mentre le sinistre riducono il marxismo, nella migliore delle ipotesi, a fiore all’occhiello, materia di ricerche accademiche e dibattiti senza alcun effetto sulla politica, la critica del modo capitalistico di produzione ritorna con forza nel pensiero e nelle dinamiche sociali.
L’allarme per l’attuale stato delle cose, la ricerca spasmodica di soluzioni, critiche simili a quelle del marxismo attraversano in questo momento ambienti di intellettuali lontani dal nostro mondo. D’altra parte le resistenze, le rivolte, gli episodi di conflittualità e microconfittualità si moltiplicano senza che nessuno si curi di politicizzarli e unificarli. Al di là delle ragioni che sostituiscono un percorso oppure l’altro, una cosa almeno può essere detta con assoluta certezza. Le due strade non si incontrano e non sono nemmeno parallele, ma semplicemente divergono. Divergono nelle teorie, nelle pratiche, nelle prospettive, nei linguaggi. Le viaggiatrici e i viaggiatori sull’una e sull’altra possono però contrattare una convivenza più civile, meno cieca e violenta, meno stolta e fratricida di quella conosciuta nel Novecento.

19 …ma per un’altra idea di socialismo

Agli inizi del XXI secolo i termini socialismo e comunismo non risolvono il problema di rendersi riconoscibili attraverso l’allusione a una storia. Troppe cose che hanno preso questi nomi sono lontanissime dai nostri desideri e da ciò che sarebbe necessario e possibile. Si chiamano socialisti o comunisti partiti che collaborano con l’offensiva liberista, le guerre neocoloniali e la restaurazione di arcaiche relazioni di genere. Si sono chiamate socialiste o comuniste società autoritarie dominate da una casta di potere, che ha liquidato prima le conquiste rivoluzionarie, poi le stesse costruzioni sociali su cui aveva fondato le sue fortune e che comunque costituivano un argine al capitalismo.
Fare ancora riferimento al socialismo e al comunismo può significare oggi una cosa soltanto: prendere atto che le emergenze della specie e del pianeta non possono essere affrontate che con misure e progetto analoghi a quelli che hanno caratterizzato la parte migliore della storia del movimento operaio.
Socialismo significa non lasciare l’economia, e quindi tutto ciò che essa genera o condiziona, sotto il controllo dell’interesse privato. Significa quindi prevedere, programmare, pianificare secondo una razionalità che abbia come riferimento il bene delle classi oppresse, della comunità umana e dell’ambiente in cui essa vive e in cui vivrà nel futuro. Socialismo significa partecipazione popolare e forme più diffuse di democrazia, senza le quali l’egemonia della politica sull’economia si traduce in un sistema di rapporti sociali ancora espressione di interessi particolari e quindi non meno irrazionale.
Socialismo significa rifiuto delle relazioni di potere nel loro complesso, perché esse reciprocamente si sostengono e insieme si riproducono. Il socialismo ha cominciato a morire, quando le socialdemocrazie hanno pensato di poter scaricare sui lavoratori e le lavoratrici di altri paesi l’aggressività padronale o hanno partecipato alle imprese coloniali. Il socialismo non è nato perché si è accettato che le donne fossero ridotte al rango di esercito di riserva e di lavoro marginale e svalorizzato. O si è rovesciato nel suo contrario, quando una parte ha preteso di essere il tutto.
Ci piace anche pensare il comunismo non come fine della storia e luogo in cui i conflitti sono superati e il lupo pascola con l’agnello, ma come possibilità che contraddizioni, conflitti e problemi si collochino finalmente su un terreno nuovo e più avanzato.

20 Il socialismo che pensiamo, che desideriamo

20.1 Il socialismo come acquisizione di poteri

Non condividiamo il refrain, troppo spesso ripetuto, “cambiare il mondo senza prendere il potere”. L’aspirazione a cambiare il mondo è infatti la domanda di potere più ambiziosa che si possa formulare. Ma il potere non è cosa che si prenda, che si impugni o si brandisca. Il potere che ci interessa non si cela nel Palazzo o nella Stanza dei bottoni, non è il potere come nome, è il potere come verbo; non è singolare, è plurale. Il socialismo non può nascere che dall’acquisizione di poteri da parte di coloro che per definizione ne sono privi, cioè dalle classi subalterne, dal secondo sesso e dalle minoranze oppresse.
Il conflitto per il potere e i poteri non è mai stato la contesa per la presa del Palazzo d’inverno, atto quasi solo simbolico, anche se indispensabile proprio perché simbolico. La rivoluzione del 1917 fu l’effetto ultimo di una vicenda durata alcuni decenni, durante i quali fattori strutturali, politici e culturali fecero crescere nel seno stesso della società zarista una soggettività articolata e forte, detentrice di poteri. In maniere tra loro anche assai diverse tutti i cambiamenti, i movimenti rivoluzionari, i rivolgimenti ecc. hanno conosciuto la medesima dinamica. Comunque si pensi a un socialismo del futuro, non ha senso pensarlo in altro modo che come trasferimento di poteri, come un nuovo ordine e un altro modo di potere.
Noi non crediamo però che l’acquisizione di poteri e la costruzione di un ordine nuovo siano processi graduali e lineari. L’acquisizione di poteri, di forza organizzata e di senso di sé può essere spezzata dall’agire consapevole dei vecchi poteri. La perdita delle conquiste sociali degli anni Sessanta e Settanta è stata l’effetto di meccanismi di autodifesa dei poteri tradizionali, che agiscono quando la loro stabilità viene rimessa in discussione.
L’acquisizione di poteri, di forza organizzativa e di senso di sé può avvenire in una fase di accelerazione di tempi storici, quando il ritmo degli eventi si intensifica e la questione del potere e dei poteri si risolve nel breve intervallo di un dualismo di poteri inconciliabili.
Le rivoluzioni sono state sempre l’effetto di una dialettica tra condizioni obiettive e forze soggettive. Lo sfarinamento di un vecchio ordine, delle sue istituzioni e della sua presa ideologica si è combinato con la presenza e la forza di altre soggettività e di altri poteri.

20.2 Il socialismo come autoemancipazione

«L’emancipazione dei lavoratori è opera dei lavoratori stessi» recitava il manifesto programmatico della I Internazionale. La vicenda del Novecento non ha inverato questa affermazione e per questa ragione il socialismo ha perso. Ha perso dopo l’Ottobre quando, elemento decisivo della vittoria rivoluzionaria, l’azione collettiva, autorganizzata al punto da costituire un potere alternativo, è stata dispersa fino a divenire un simulacro di sé. Fino a produrre lo slittamento semantico del termine sovietico: il soviet come consiglio, potere popolare autogestito è stato trasformato in un’ampolla burocratica senza legami con il popolo e in articolazione organizzativa della casta al potere.
L’autorganizzazione è stata anche una misura dei movimenti nei paesi a capitalismo avanzato. E non è un caso che essa abbia incontrato spesso l’ostinata avversione di burocrazie sindacali e di partito, di direzioni che avevano introiettato la collaborazione di classe come orizzonte sistematico.
Un progetto rivoluzionario non può che ripartire da quel principio, per il quale l’organizzazione delle lotte poggia sulla democrazia dei soggetti e sulla loro effettiva possibilità di autoemancipazione. Attraverso luoghi di democrazia conflittuale, attraverso forme partecipate, deleghe limitate, rotazione degli incarichi, istituti di democrazia diretta accanto a quelli della democrazia rappresentativa. La partecipazione ha bisogno di mezzi adeguati e il potere di decidere deve essere improntato a nuovi principi ed esercitato con diversi strumenti.

20.3 Il socialismo come uguale libertà

Noi raccogliamo l’eredità dei comunisti e delle comuniste che nel 1956 si schierarono dalla parte della rivoluzione ungherese e nel 1968 dalla parte della Primavera di Praga, non contro il socialismo ma per il socialismo. Non perché non fossero abbastanza comunisti/e ma perché avevamo un’altra idea del comunismo. Pensiamo alla liberazione dall’oppressione di classe, come la pensava Marx: la conquista di una uguale libertà per tutti gli esseri umani, la possibilità di sviluppo onnilaterale di ogni persona, donna o uomo. Vogliamo un socialismo che sia libertà da e libertà di: libertà dal bisogno, dall’indigenza, dallo sfruttamento, dalla subordinazione sociale; libertà di pensare, di parlare e di scrivere, libertà politica, religiosa e sessuale. Siamo per l’uguale libertà delle donne e per la libertà dei corpi, per l’autodeterminazione e l’autonomia come sesso e come singole persone sessuate.
Il socialismo della libertà è possibile perché lo abbiamo visto venire al mondo ed esistere, sia pure per brevi momenti della storia; perché la sua sconfitta non era inevitabile e già inscritta nelle cose; perché nel lavoro salariato è cresciuta la capacità di agire per sé; perché esso ha continuato a vivere nei desideri di tante persone che non hanno smesso di riflettere e di sperare.
Migliaia di comuniste e comunisti sono morti per avere creduto che il comunismo fosse inseparabile dalla libertà. Erano comunisti non dogmatici, trotzkysti, anarchici, libertari, autogestionari, militanti operai insofferenti alla burocrazia, alle direttive dei funzionari di partito. Hanno perso, sono stati battuti ma la lotta che hanno condotto e l’unica che ci consente oggi di dire che un altro socialismo è possibile.

21 La questione dei programmi

Come la questione del potere e dei poteri, come le forme organizzative nel loro rapporto con la democrazia, così anche i programmi sono stati per il movimento operaio del Novecento l’espressione di storie tra loro assai diverse.
Noi rivendichiamo le conquiste parziali e rifiutiamo l’idea che buono sia solo l’obiettivo che non si raggiunge. Le lotte senza esiti positivi demoralizzano, producono rassegnazione o disperazione, sono cattive consigliere di pratiche opportunistiche o estremistiche.
Noi pensiamo che oggi sia più necessaria che mai la proposta articolata di un modo diverso di funzionamento dell’economia e dell’organizzazione politica. In altri tempi della storia fondatamente Marx affermò che non intendeva dare “ricette per la cucina dell’avvenire”. Agli inizi del XXI secolo, di fronte all’emergenza ambientale, al rilancio del militarismo e delle armi di distruzione di massa, alle caratteristiche dell’economia globalizzata non è possibile ripetere la stessa affermazione.
È necessario infatti conquistare al rifiuto del vecchio ordine fondato sui profitti il settore più ampio possibile di intellettuali delle nuove generazioni, di quella forza lavoro qualificata e nello stesso tempo svalorizzata che rappresenta oggi uno dei nuclei decisivi per la costruzione di una nuova soggettività.
Apparteniamo tuttavia a una tradizione polemica verso la logica della giustapposizione tra programma massimo e programma minimo. In passato la polemica era rivolta a un certo modo di essere socialisti, caratterizzato da una prassi empirica e minimalista e da grandi discorsi rivoluzionari della domenica. Oggi questa critica sarebbe fuori luogo e fuori tempo. Si tratta piuttosto di constatare e criticare la schizofrenia tra le parole e i fatti, tra ciò che si è detto e ciò che si fa, tra i fini presunti e i mezzi reali, tra idealità residue e pratiche reali.
Noi riproponiamo oggi un’idea diversa di programma, che non spezzi il legame tra presente e futuro, tra i mezzi e i fini, tra organizzazioni politiche e corpo sociale.

22 Obiettivi transitori: un metodo e un’idea forza

Non si ricostituisce una nuova soggettività critica senza un’idea di programma, cioè senza l’idea di transizione ad una società alternativa a quella basata sul profitto. E che proponga una logica diversa: la solidarietà contro l’egoismo sociale, il benessere collettivo contro il privilegio di pochi, la difesa dei beni comuni contro l’appropriazione privata. Ma la città futura non potrà essere fondata che sui bisogni e sulle aspettative di un presente, sulla loro crescita organizzativa e culturale.
Tutti i grandi processi di trasformazione sono stati fondati, in modo esplicito o implicito, su programmi e progetti capaci di costituire un ponte tra un insieme di bisogni e di lotte e un ordine nuovo. Non un programma minimo contrapposto a un programma massimo, ma una serie di misure e di obiettivi, la cui realizzazione (nel loro complesso) presuppone la fine di un’organizzazione sociale e l’inizio di un’altra. Ma un programma transitorio presuppone l’esistenza o la possibilità di anticipazione concreta di una reale dinamica transitoria e non è un esercizio letterario.
Il programma, nei suoi contenuti effettivi e nella sua forma compiuta, nasce dalle lotte che una soggettività sa raccogliere o innescare, dai movimenti a cui si relaziona, dal contesto di crisi del vecchio ordine e dai modi in cui si manifesta, dalla natura delle alleanze politiche.
Un programma del genere può essere oggi solo un’idea-forza in una certa misura indefinita. Non per caso essa è tornata in uno degli slogan più suggestivi del movimento altermondialista: riappropriamoci del nostro mondo. E il concetto di ri-appropriazione non indica la restituzione di qualcosa che si è già posseduto e si è perso, ma di qualcosa che non si possiede e a cui si ritiene di avere diritto.

23 ll programma vive attraverso le lotte

Gli elementi costitutivi del programma che bisognerebbe costruire nei conflitti e negli sforzi organizzativi del prossimo futuro sono già in gran parte presenti nel movimento altermondialista e nelle lotte piu recenti. I bisogni e le rivendicazioni non rappresentano per ora un insieme sinergico, ma indicano con chiarezza di che cosa le popolazioni desiderino appropriarsi:
  1. delle risorse naturali che appartengono a tutte e a tutti e di cui nessuna comunità umana può essere privata. Lotte reciprocamente sconosciute contro la deforestazione, per l’acqua e contro la sua privatizzazione, contro l’inquinamento dell’aria e delle acque, per la terra e per la possibilità di decidere del proprio territorio sono diventate patrimonio di conoscenza comune e dovrebbero tradursi in rivendicazioni fondamentali di un programma.
  2. del valore d’uso della propria forza lavoro, del proprio tempo, della certezza di non restare prive/i dei mezzi della sopravvivenza, dei diritti conquistati e persi e dei diritti mai riconosciuti. Le lotte nelle fabbriche per migliori condizioni di lavoro, le lotte contro le delocalizzazioni e le ristrutturazioni, le mobilitazioni degli studenti e di giovani lavoratrici e lavoratori contro la precarietà sono state frammentarie e difficili. Tuttavia per l’ampiezza dei settori sociali che coinvolgono, per l’immediatezza dei bisogni che rappresentano, per la forza che possono esprimere sono decisivi per pensare e realizzare effettivi mutamenti dei rapporti di forza.
  3. della democrazia e della partecipazione. L’esigenza di decidere e di partecipare si manifesta con forza in coloro che si radicalizzano perché è viva la coscienza dell’espropriazione politica subita, della grande distanza dalle istituzioni rappresentative, dalle assemblee delle elette e degli eletti e dalle stesse organizzazioni sindacali. L’esperienza di Porto Alegre, i tentativi zapatisti o l’autogestione sperimentata in Argentina mostrano ancora una volta la possibilità e l’aspirazione di masse popolari di decidere della propria vita in un processo aperto e collettivo.
  4. della pace e della possibilità di collaborazione tra i popoli. Il movimento contro la guerra ha avuto per alcuni anni dimensioni forse senza precedenti. Il suo riflusso di fronte alle difficoltà di imporsi con la sola forza di una domanda di pace non ha mutato affatto il sentire popolare. In Italia la prova piu evidente del distacco tra tutta la sinistra, compresa quella cosiddetta radicale, e la società è nella percentuale di popolazione contraria alla partecipazione alle guerre e l’adesione totale dei partiti con l’eccezione della resistenza di pochissime unità di marziani in parlamento.
  5. della convivenza tra le diverse culture, che emerge come bisogno e rovescio dello “scontro tra civiltà”. Le manifestazioni del movimento altermondialista hanno visto in non poche occasioni settori di migranti organizzati, uomini e donne, e non di rado nelle mobilitazioni sindacali questa presenza relativamente nuova per l’Italia segnala l’esigenza di ripensare insieme programmi e orizzonti culturali. Tuttavia dappertutto in Europa, dove il problema è stato etnicizzato, i tentativi di pacifica convivenza sono evidentemente falliti. Bisogna costruire le condizione dell’uguaglianza all’interno di un nuovo movimento operaio, nativo e migrante, a partire dalla struttura del mercato del lavoro e dai diritti sociali.
  6. del proprio corpo, della sessualità, della riproduzione. I movimenti di donne e il movimento queer o Lgbtq sono stati e restano, soprattutto in Italia, una componente importante delle risposte alla restaurazione sociale, politica e culturale. In epoca di ritorno degli integralismi, di rafforzamento del ruolo politico delle religioni le lotte delle donne e delle persone omosessuali hanno riproposto il tema di una società laica fondata sull’autodeterminazione e sulla libertà delle scelte.

24 Per un forum dell’opposizione sociale

La proposta di costruzione di un forum dell’opposizione sociale, emersa dalle recenti discussioni sulla vicenda politica in Italia, è l’unica possibilità concreta di ricominciare. Il vuoto che si è creato tra partiti e società ci appare oggi anche più pericoloso perché è evidente che questa società non dorme. E ci appare più irresponsabile ignorarlo perché le dinamiche della globalizzazione non hanno smesso di operare e gli effetti cumulativi perversi del capitale continueranno comunque ad agire.
L’attesa della fase di un governo di alternativa in cui dopo il risanamento si realizzi almeno un po’ di giustizia, resterà necessariamente delusa. Il capitalismo italiano non puo rinunciare alla guerra, deve fare i conti con la concorrenza e con il deficit del bilancio statale, non ha alcun interesse ad affrontare i problemi con soluzioni semplici, ma che ledano o incrinino i suoi interessi immediati e futuri. Per costringerlo a desistere dai suoi progetti sarebbero necessari altri rapporti di forza che andrebbero prima di tutto costruiti nei luoghi di lavoro, nei territori, nelle università e nelle scuole. La sinistra prepara invece collages di ceti politici, rompe con i movimenti, gira le spalle alle lotte, spiega al popolo elettore che per vincere la destra bisogna somigliare il più possibile a una destra. Ai suoi margini cominciano inoltre a manifestarsi preoccupanti fenomeni di corruzione e di collusione.
Tra l’effervescenza sociale e la corporazione privilegiata dei ciechi e dei sordi, uno spazio si spalanca per il corporativismo della destra e (peggio ancora) per una destra popolare e radicale, capace di attrarre a sé settori di proletariato giovanile.
È urgente oggi l’esigenza di tornare alla società, scavalcando strutture politiche prive di radicamento, ormai troppo leggere e che nella migliore delle ipotesi possono ancora agire come comitati elettorali. Bisogna tornare a frequentare i luoghi del lavoro contemporaneo, lavorare politicamente nelle scuole e nelle università, bussare di nuovo alle porte e fermare la gente nelle piazze e per le strade.
Bisogna che le popolazioni in lotta, la parte più combattiva del sindacalismo, i movimenti che continuano a manifestare, i singoli soggetti attivi della politica di diversa qualità umana e intellettuale si coordinino con una logica simile a quella di un forum sociale, ma con la consapevolezza di essere oggi in un’altra fase. Per dare maggiore solidità ed efficacia a uno spazio politico e sociale, che viene costantemente evocato dalle molteplici lotte ma che non acquista mai la necessaria forza per stabilizzarsi e produrre un fatto nuovo durevole. Non siamo adesso portati dall’onda di una sia pur breve ascesa, che solleva leaders maschili carismatici, in cui spesso (come scriveva Marx di Thiers) tutta la forza del cervello si è concentrata nella lingua. Ora il movimento va ricostruito con pazienza e fatica, ma soprattutto con grande responsabilità.
Le logiche dei ceti politici infatti possono agire anche nei movimenti e nei gruppi politici che non si sono lasciati corrompere dalla permanente istigazione alla corruzione della democrazia liberale. È vero che si tratta di logiche meno perverse, perché nei movimenti e nelle organizzazioni non integrate nelle istituzioni la selezione del personale politico avviene con criteri diversi e migliori. Ma è anche vero che questo rischio non deve essere nascosto.
Il settarismo, incapacità di collaborazione autentica, la scarsa cura della cosa comune (se si riuscirà a costruirla) e l’interesse esclusivo per il proprio orticello, il desiderio di visibilità personale e di applausi, possono minare l’impresa all’origine e far fallire l’ennesimo nuovo inizio. Bisogna perciò che un femminismo autorevole ponga immediatamente limiti al Narciso maschile, eserciti una critica, punisca con l’ironia, lavori per mutare le pratiche e imporre un altro tipo di rapporti umani.
C’è un estremo bisogno che una nuova sinistra si costituisca a partire da queste pratiche e da questa necessità obiettiva.
Ci rimettiamo in cammino, dunque, per ri-costruire una sinistra di alternativa degna di questo nome, incompatibile alla guerra e al liberismo, vincolata alla logica del «senza se e senza ma», che poi vuol dire essere incompatibili con il capitalismo. È inutile negare che siamo sconfitti dagli arretramenti e dagli adattamenti che sono alle nostre spalle dalla deriva riformista che un grande progetto, come quello della rifondazione comunista, ha assunto. Siamo anche più consapevoli della posta in gioco e per certi versi più avvertiti.
Questo cammino non lo faremo da soli e da sole ma nel vivo di un conflitto che le moderne contraddizioni del capitale non riescono a celare. È questo conflitto, le resistenze che genera, le nuove forme politiche che attiva, che ci fa dire che non siamo soli. E che vale ancora la pena di lavorare per cambiare il mondo. Un altro mondo è possibile e noi ci scommettiamo ancora.
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